Politica

La pretesa velleitaria delle «strette intese»

L’occasione Enrico Letta l’ha avuta e l’ha buttata via. Il 2 ottobre poteva nascere un Pdl 2.0, di destra, certo, e magari virtuale, perché molti voti restano nella cassaforte del […]

Pubblicato circa 11 anni faEdizione del 25 ottobre 2013

L’occasione Enrico Letta l’ha avuta e l’ha buttata via. Il 2 ottobre poteva nascere un Pdl 2.0, di destra, certo, e magari virtuale, perché molti voti restano nella cassaforte del condannato, ma disposto a dare stabilità al governo, ad appoggiarlo in Europa, persino a misurarsi con il Pd sulla riforma della Costituzione. Ma il premier ha letto in aula, in fretta e a bassa voce, parole vaghe su Berlusconi, non ha saputo tracciare una netta demarcazione tra lo stato diritto e gli interessi di un cittadino, tra la democrazia liberale e la pretesa che l’eletto del popolo non sia un cittadino come tutti ma possa venire sottratto al controllo di legalità del giudice.

Alla fine Berlusconi è riuscito a mettere da parte il suo orgoglio e a votare la fiducia. «Grande», ha detto Letta. Sì, lui sì. Dopo quel voto Alfano e i suoi amici sono rimasti in mezzo al guado: la testa al governo con Letta, il cuore e il portafogli ancora a Palazzo Grazioli. Subito sono ripresi i ricatti sull’imu, a proposito dell’amnistia e dell’indulto, persino sulla Presidente dell’Antimafia, con l’Aventino contro la nomina di Rosy Bindi.
Pensare che, in questo contesto, 42 deputati e senatori possano trovare la quadra e formulare un qualche progetto organico di riforma della Costituzione, mi pare fantascienza. Il voto del Senato, in seconda lettura, con la maggioranza dei due terzi spuntata solo per 4 voti, mi è parso un modesto auto inganno.
Il tentativo di giustificare la non esaltante navigazione del governo e delle legislatura con il miraggio di una salvifica grande riforma che tutto vorrebbe riparare. Questo penso e l’ho detto in aula. Oltre a me, quattro senatori del Pd si sono sottratti al vincolo di partito e non hanno partecipato al voto. Altrettanti hanno firmato un documento critico pur finendo col votare insieme al gruppo..
Ma in aula si è manifestato anche un dissenso a destra. Contro la «colomba» Quagliariello e le sue minacce ai «falchi» ma, soprattutto, per inserire la questione della giustizia come priorità delle priorità, all’interno del pacchetto delle riforme costituzionali. Undici di loro si sono astenuti. Volevano fare cadere il governo? Non lo so. Certo è un episodio che rende ancora più evidente quanto velleitario e ideologico sia ripetere che si potranno fare le riforme. Le larghe intese (che delle riforme erano la cornice) mi paiono sempre meno larghe e più stanche. E i quotidiani appelli di Napolitano finiscono ormai nelle pagine interne dei giornali in edicola.
E allora? Ci vorrebbe uno scatto, la capacità di darsi poche priorità: una legge elettorale che ridia ai cittadini il diritto di scelta, una proposta di modifica del patto di stabilità su cui trovare alleanze in Europa, qualche misura per stimolare la domanda interna e sboccare il credito per piccole e piccolissime imprese.
Senza neppure questo, «la politica» continuerà a menare il can per l’aia, «l’antipolitica» a gridare vergogna, Rodotà, Landini Bonsanti a dirci le che «la Costituzione è la via maestra». Sono d’accordo, e dunque?

* senatore del Pd

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