Cultura

La prosa sotterranea dell’apartheid

La prosa sotterranea dell’apartheidOpera di JR in Kibera (Kenia)

Paul Beatty Intervista allo scrittore newyorkese, autore del romanzo «Lo schiavista» (Fazi editore)

Pubblicato quasi 8 anni faEdizione del 26 novembre 2016

«Ci piace pensare che la storia sia un libro, e quindi di poter girare pagina, muovere il culo e andare avanti. Ma la storia non è la carta su cui viene stampata. È la memoria, e la memoria è tempo, emozioni, e canto. La storia sono le cose che ti rimangono dentro». Con Lo schiavista (Fazi, pp. 370, euro 18,50), Paul Beatty ci costringe a misurarci con le promesse mancate dell’era Obama, con il debutto di quell’«età post-razziale» di cui è rimasta traccia, un po’ come le analisi che attribuivano una vittoria certa a Clinton su Trump, solo sui titoli dei grandi giornali americani.

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La realtà, come spiega il cinquantaquattrenne afroamericano docente di letteratura della Columbia, arrivato alla narrativa dopo aver studiato scrittura creativa al Brooklyn College, psicologia alla Boston University ed essere stato a lungo attivo nella scena newyorkese della Slam Poetry, per molti versi parente stretta del rap, è infatti molto diversa da come è stata a lungo raccontata. Al punto che per chiarire come stiano effettivamente le cose, in questo suo terzo e irresistibile romanzo, il secondo ad essere tradotto nel nostro paese dopo Slumberland (Fazi), ricorre ad un’ironia e ad un paradosso talmente dissacranti da immaginare che un nero di Dickens, una località della California così povera e marginale da essere stata addirittura cancellata dalle carte geografiche, auspichi per la comunità in cui vive il ritorno alla schiavitù e alla segregazione razziale per ritrovare la propria identità.

«Lo schiavista» muove da un assunto ben preciso, ciò che lei fa dire in questi termini al protagonista del libro: «io ho sussurrato “razzismo” in un mondo post razziale». In realtà con la presidenza Obama le cose non sono poi cambiate così tanto?

Personalmente non ho mai creduto che il colore della pelle del presidente degli Stati Uniti potesse cambiare in profondità le cose nel paese, una situazione che per certi versi si protrae da alcuni secoli. Ed in realtà, al di là delle enunciazioni di principio e al valore simbolico di quell’evento, nessuno ha mai pensato che con l’arrivo di Obama alla Casa Bianca il razzismo potesse essere scomparso, anche perché in molti hanno continuano a viverlo ogni giorno sulla propria pelle, come dimostra la violenza di cui tanti giovani neri sono rimasti vittime proprio in questi ultimi anni. Piuttosto ciò a cui si è assistito è una sorta di rimozione del problema dallo spazio pubblico, quasi fosse diventato inopportuno il semplice nominare tali fenomeni.

Visto che un nero era diventato presidente non era più il caso di parlare dell’eredità della segregazione o dell’apartheid sociale che ha preso il posto del vecchio suprematismo bianco?

Qualcosa del genere. Ripeto, il problema è stato semplicemente rimosso, al punto che per molti giovani è come se non fosse quasi mai esistito. Alla Columbia University, dove insegno, mi sono trovato spesso a parlare con studenti che sembrano non vedere come i meccanismi del razzismo siano ancora pienamente attivi nel mondo che li circonda; e questo perché oggi è come se fosse considerato politicamente scorretto il solo parlare della questione. Molti dei miei studenti sono infatti convinti che citare le discriminazioni, non solo razziali ma anche di genere o di classe, rappresenti quasi un modo subdolo per alimentarle. Con il risultato che il clima sociale e culturale «costruito» nell’ultimo decennio rischia spesso di rendere indicibile, non più descrivibile fino in fondo ciò che si vive ogni giorno, la realtà concreta e profonda del paese.

Le faccio un esempio: un giorno stavo parlando con un mio collega messicano e con un nostro studente il quale ad un certo punto ci si è rivolto dicendo: «Mi dispiace davvero tanto per voi due perché per voi deve essere stato davvero difficile avere a che fare per tanti anni, quando eravate giovani, con il razzismo e con tutti i problemi che può avervi provocato». Io e il mio collega ci siamo guardati e siamo scoppiati a ridere perché al contrario pensiamo che sia molto più difficile per le nuove generazioni misurarsi con tutto questo. Noi avevamo una serie di strumenti per leggere la società che ci permettevano di analizzarla e di affrontarne i nodi più problematici che spesso oggi, proprio per il clima che ho descritto, sembrano mancare del tutto ai più giovani.

Perciò è per «dare un nome alle cose», per ricordare come la discriminazione razziale non abbia smesso di essere presente nella società americana che nel suo romanzo ricorrere al paradosso di un nero che vuole ripristinare schiavitù e segregazione?

In primo luogo ho voluto sottolineare come negli Stati Uniti da questo punto di vista i fantasmi del passato continuino ad influenzare il presente. Dico questo perché non solo si tende a rimuovere la storia della schiavitù e della segregazione dalla memoria collettiva del paese, quasi fosse difficile semplicemente riflettere sulle conseguenze di tutto ciò, ma addirittura negli ultimi anni sta emergendo anche una sorta di nostalgia per i «vecchi tempi» in cui il paese era più ordinato e tranquillo, quando «ognuno stava al suo posto» e i confini culturali e morali, ma anche implicitamente razziali, erano netti, tracciati in modo chiaro.

È questo un fenomeno che evoca in modo più o meno esplicito se non gli anni dello schiavismo, quelli della segregazione razziale, e che trova consenso sia tra molti bianchi che tra i neri di destra che sostengono che un tempo le famiglie nei ghetti erano più solide e «la comunità» era unita. Che non si tratti di una tendenza marginale lo hanno del resto confermato le elezioni presidenziali. Lo slogan della campagna di Donald Trump promette infatti di «far tornare grande l’America», strizzando apertamente l’occhio alla crescente nostalgia di un paese in cui le gerarchie tradizionali di razza come di genere erano ancora ben salde.

Proprio Trump si è però presentato anche come l’uomo che avrebbe detto la verità al paese, prendendo di mira il politicamente corretto che a suo dire rappresenta una sorta di linguaggio del potere per nascondere la realtà delle cose. In questo senso gli ambienti progressisti non hanno capito la portata della minaccia?

Personalmente ho sostenuto Bernie Sanders e sono sempre stato convinto che con Hillary Clinton presidente per il paese, ed i neri in modo particolare, le cose non sarebbero migliorate granché. Oggi è però chiaro che con Trump alla Casa Bianca la situazione non farà che peggiorare. Durante la campagna elettorale ho percepito, anche parlando con le persone che conosco a New York che è per altro una città molto liberal, quanto rabbia e paura stessero diventando i sentimenti dominanti, il risultato delle urne ha poi confermato, ma oltre ogni possibile previsione, questa sensazione.

Quanto al dibattito sul politicamente corretto voglio essere chiaro: non credo che si tratti di qualcosa di negativo quando serve per esprimere rispetto e volontà di inclusione nei confronti di chi è diverso da noi. Da questo punto di vista la strategia adottata da Trump al riguardo è stata in realtà un bluff, nel senso che per la sua parte politica e per le persone cui si è rivolto è tutt’altro che «scorretto» dire le cose che ha detto riguardo agli immigrati messicani, ai musulmani o alle donne. Lui ha detto voce a posizioni e idee che nel paese hanno una forza evidente, e questo a prescindere dalla sua candidatura. Semmai è nel non capire il malessere di una parte della popolazione che i progressisti hanno mostrato tutti i loro limiti.

In quest’ultimo romanzo come nei suoi libri precedenti, «Slumberland» e «American Prophet», sembra emergere però anche la volontà di smontare alcuni luoghi comuni della memoria afroamericana, a partire dalla stessa definizione di «comunità nera» che non si capisce bene se sia frutto di una consapevolezza interna o dello sguardo degli altri…

Per certi versi credo si possa dire che nei miei libri cerco di indagare ciò che viene spesso presentata come «l’identità nera», anche se il mio punto di partenza è un quesito aperto rispetto a cosa si celi davvero dietro questo termine piuttosto che una risposta o un’affermazione certa. Quelle a cui fa riferimento sono le medesime domande che mi pongo da una vita e che attraversano tutto il mio lavoro.
Per tentare di risponderle, voglio però sottolineare come il mio punto di partenza sia l’aspetto psicologico dominante nei gruppi, nelle «comunità» e il modo in cui si percepiscono e vengono viste dagli altri. E ciò di cui sono sicuro è che anche quando questi gruppi possono essere identificati in base a delle peculiarità sociali o culturali, l’idea che queste caratteristiche siano date una volta per sempre è decisamente falsa. Tutto ciò che li identifica è al contrario mutevole, transitorio e in continua evoluzione. Pensare il contrario è spesso proprio un alibi per stabilire gerarchie di ogni sorta e perpetrare le discriminazioni.

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