Un disco spoglio, minimale, dove quello che conta più di tutto sono le atmosfere, una malinconia che aleggia nell’aria, leggera, e che ci avvolge, riportandoci alla luce, all’alba, a un nuovo inizio. Nel torbido, il quinto album solista del chitarrista torinese Paolo Spaccamonti, è forse il suo lavoro più bello, più profondo, quanto mai influenzato dalle esperienze vissute in questi anni. Ed è il primo pubblicato dalla sua neonata etichetta Liza, che curerà gran parte del catalogo di Spaccamonti, le nuove uscite quanto le ristampe di alcuni lavori precedenti.

«IL DISCO è nato piano piano», racconta, «in diversi momenti, cominciando qualche anno fa. Il punto di partenza è stato il fatto di lavorare sempre di più con il teatro. Per la prima volta, con la musica non partivo da zero, ma avevo a disposizione dei testi su cui lavorare, dei soggetti, delle parole. I pezzi nascono da lì come ispirazione, sono legati a quei lavori, anche se poi li ho ripresi e rivisitati».
Tra le ultime produzioni cui ha collaborato, componendone le musiche, ci sono infatti gli spettacoli Ifigenia e Oreste e Sei personaggi in cerca d’autore di Valerio Binasco, e Nottuari, opera tratta dai racconti horror di Thomas Ligotti, diretta dal regista Fabio Condemi. Il teatro è l’ultimo approdo di un percorso da cui sono nati moltissimi dischi e collaborazioni importanti, ad esempio con Jochen Arbeit degli Einsturzende Neubauten, Damo Suzuki, Emidio Clementi, Roberto Tax Farano dei Negazione, oppure con l’esperimento metal noise Spaccamombu. Paolo Spaccamonti ha scritto colonne sonore per il cinema, per i film I cormorani (insieme a Ramon Moro) e Lo spietato (con Riccardo Sinigallia) e da tempo, grazie al Museo nazionale del cinema, porta in giro alcune sonorizzazioni di film muti, come Vampyr, Once upon a time, Greed.
È un processo che continua: con la sonorizzazione del film di Lubitsch Die Puppe insieme a Ramon Moro, il tour legato alla colonna sonora de L’uomo con la macchina da presa di Dziga Vertov con Stefano Pilia, un reading con l’attore Antonio Rezza, insieme a Enrico Gabrielli, un nuovo disco solista, che verrà pubblicato dopo l’estate dall’etichetta Die Schachtel. ll punto di partenza è stato il fatto di lavorare sempre più con il teatro. Per la prima volta, con la musica non iniziavo da zero, ma avevo a disposizione dei testi

UNA VARIETÀ di itinerari che ha affinato sempre di più una prospettiva quanto mai personale rispetto alla composizione. «Quando scrivo» spiega Spaccamonti, «per quanto io ascolti tantissima musica, non ho dei riferimenti precisi, parto sempre più dal mio sentire. Mi interessava lavorare molto sul suono, più che sulla struttura dei brani, cercando di dare profondità, che è poi quello che succede nel teatro. Diciamo che forse ora sono più ispirato ai musicisti con cui collaboro, piuttosto che ai dischi. Stefano Pilia ad esempio, e Gup Alcaro, mi hanno influenzato tantissimo nell’approccio».
Rapporto che si è potuto consolidare anche grazie alla trionfale tournée teatrale di Lazarus, lo spettacolo dedicato a David Bowie diretto da Valter Malosti, portato in tutta Italia con più di 70 date in tre mesi, e una formazione straordinaria sul palco, con Manuel Agnelli alla voce, Jacopo Battaglia alla batteria, il sax di Laura Agnusdei, la tromba di Ramon Moro e le chitarre di Pilia e Spaccamonti, oltre al sound design di Gup Alcaro, che ha vinto il premio Ubu per il miglior progetto sonoro.

ANCHE nei suoi lavori solisti, Paolo Spaccamonti ha sempre invitato a suonare altri musicisti, spesso a partire da collaborazioni evolutesi nel tempo. Nell’ultimo Nel torbido, ci sono la violoncellista canadese (ma torinese d’adozione) Julia Kent e i fiati di Enrico Gabrielli, insieme al batterista Dario Bruna. «Le collaborazioni nascono sempre in modo naturale», riflette Spaccamonti. «Con Enrico avevo fatto alcuni concerti legati al mio set, dove lui arrangiava i miei brani dal vivo. In questo lavoro, quando ho trovato dei brani in cui lui poteva inserirsi, l’ho chiamato. Julia è la terza volta che suona in un mio disco. In ogni mio lavoro, quando sento l’esigenza di avere un musicista in più, un colore specifico, so che posso contare su musicisti fidati, con cui vado sul sicuro perché so che si sposano bene con le mie sonorità. Sono tutti cari amici, o lo sono diventati nel tempo, perché per me la dimensione umana rimane fondamentale».