La primavera del popolo Sami in Lapponia
Finlandia L’antico gruppo etnico rischia la scomparsa, minacciato anche dalla diminuzione dei terreni per il pascolo di renne. Ma dopo secoli di soggezione, trova un nuovo orgoglio
Finlandia L’antico gruppo etnico rischia la scomparsa, minacciato anche dalla diminuzione dei terreni per il pascolo di renne. Ma dopo secoli di soggezione, trova un nuovo orgoglio
Maggio è il mese più importante per i Sami, il popolo indigeno più antico dell’intero continente Europeo. Durante questo periodo, in tutta la Lapponia gli abitanti sono impegnati ad accogliere i cuccioli di renna che vengono alla luce proprio quando gli ultimi manti di neve invernale si sciolgono. Ai piccoli viene immediatamente segnato l’orecchio con tagli che, per tutto il resto della loro vita, ne identificheranno l’appartenenza ai diversi siida, i villaggi che sono la basi comunitarie della cultura Sami.
Il legame tra la renna e i Sami è indissolubile, tanto che nei tre paesi scandinavi, Norvegia, Svezia e Finlandia, parlare di allevatori di renne equivale a dire Sami, mentre nella lingua locale, dal termine eallin, “vita”, deriva la parola eallu, “mandria di renne”.
La renna è presente in tutti gli aspetti del popolo Sami: dai tamburi usati dagli sciamani per comunicare con il mondo degli spiriti, alla dieta lappone, di cui la carne di renna è parte essenziale per il suo altissimo contenuto proteico» mi dice Risto Pulkkinen, professore di Religioni Comparate all’Università di Helsinki. Alvaar Alto, l’architetto finlandese, ha addirittura disegnato il piano urbanistico di Rovaniemi riproducendo la testa di una renna con tanto di corna. Fino a pochi decenni fa, quando goretex e vibram non avevano ancora conquistato il mercato, le donne riutilizzavano la pelle dell’animale per farne vestiti e goikkehat, i tipici stivaletti a punta rialzata che oggi vengono venduti a prezzi esorbitanti come souvenir nei negozi lapponi. E anche se l’arrivo di motoslitte e pick-up ha soppiantato gli sci, l’allevatore di renne continua ostinatamente a chiamarsi boazovazzi, “renna che cammina”.
«In tutta la Lapponia ci sono circa 7-800.000 renne e 10.000 allevatori» spiega Inger Anita Smuk, membro dell’Associazione degli Allevatori di Renne e lei stessa allevatrice; «La commercializzazione delle grandi catene distributive e il turismo hanno costretto molti Sami ad abbandonare l’attività pastorale o, nel migliore dei casi, a riunirsi in cooperative per poter fronteggiare l’aumento dei costi».
Questa contrazione, assieme al richiamo di lavori meglio retribuiti e stili di vita meno isolati, ha causato una vera e propria diaspora che rischia di mettere a repentaglio la stessa sopravvivenza etnica. Delle nove lingue Sami, tre sono parlate da meno di 50 persone e altre quattro da meno di mille. «La lingua Sami è protetta solo nelle regioni tradizionalmente abitati da queste popolazioni, quindi, quando una famiglia migra al sud, non ha più occasione di parlarla. In questo modo la lingua va perdendosi» spiega Irja Seurujarvi-Kari, professoressa di lingua e cultura Sami all’Università di Helsinki. Degli 85.000 Sami, solo il 20% parla ancora correntemente la propria lingua madre e per evitare la completa estinzione, si sta correndo ai ripari. In ciascuno dei tre paesi scandinavi, i governi hanno avviato riforme scolastiche che hanno introdotto l’utilizzo di testi scolastici in lingua Sami, mentre radio e televisione trasmettono programmi di cultura e informazione. Tutto ciò, però, non basta, come fa notare Irja Seurujarvi-Kari: «La lingua, per sopravvivere, deve continuamente riformarsi con lo sviluppo della società e della tecnologia. Questo, tra i Sami, non sta accadendo. Si studia Sami a scuola, ma poi in famiglia, al lavoro o tra amici si continua a parlare finlandese, norvegese o svedese. Se non fa parte della quotidianità, qualsiasi lingua è destinata a morire». A questo si aggiunga che risulta sempre più difficile e costoso trovare buoni insegnanti e stampare libri di testo in lingua Sami per accorgersi che il futuro non è certo roseo.
Qualche speranza, però, è ancora possibile: dopo secoli di soggezione e di disagio, oggi si sta assistendo a un nuovo orgoglio culturale dei Sami. Si rispolverano i vestiti, anche se solo per le feste tradizionali, si espone la bandiera della cosiddetta Samiland e nei giardini si trovano sempre più spesso i lavvu, le tende utilizzate per gli spostamenti.
Dal 1989, inoltre, a Kautokeino, in Norvegia, esiste l’Università Sami che ospita circa 250 russi, finlandesi, svedesi e norvegesi. Per portare nelle rispettive capitali (Oslo, Stoccolma e Helsinki) i problemi delle varie comunità, sono stati creati tre parlamenti che hanno anche il compito di sorvegliare che la terribile storia di colonizzazione e di sistematica disgregazione della cultura e delle comunità Sami perpetrate da Norvegia e Svezia dal XVI secolo, non si ripeta. In particolare Oslo, a cavallo tra il XIX e il XX secolo, si è distinta per la sua politica di occupazione e assimilazione, di cui la ribellione di Kautokeino del 1852 è stata l’epilogo più tragico e, al tempo stesso, l’episodio di consapevolezza etnica Sami più importante nella storia moderna. Oggi la Norvegia, assieme alla Svezia, ha introdotto nelle sua costituzione articoli tra i più avanzati al mondo per la salvaguardia delle etnie minoritarie. Ma, come sottolinea un recente rapporto delle Nazioni Unite che pur loda gli sforzi fatti dalle nazioni scandinave a favore dei Sami, la cultura e lo stile di vita di queste popolazioni lapponi sono in pericolo. Miniere di ferro e centrali eoliche in Svezia, giacimenti di gas naturale in Norvegia e deforestazione in Finlandia restringono sempre più i terreni a disposizione per il pascolo delle renne, minacciando l’unica fonte di sostentamento ecosostenibile dei Sami.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento