La prima silenziosa lezione
Vita con fotoreporter Il lavoro insieme a Uliano Lucas nell’Etiopia degli anni ’90 e nell’ex manicomio di Trieste
Vita con fotoreporter Il lavoro insieme a Uliano Lucas nell’Etiopia degli anni ’90 e nell’ex manicomio di Trieste
Fra gli anni Cinquanta e Settanta i rotocalchi italiani arrivarono a vendere fino a 20 milioni di copie. Significa che quasi la metà del Paese comprava una rivista illustrata. Il segreto di quel periodo d’oro sta proprio in quel «illustrata». Fu l’attenzione alla fotografia a far arrivare anche in Italia una tendenza già in corso all’estero con «Life», «Stern», «Paris Match». Al reportage e al particolare rapporto di lavoro fra giornalista e fotografo sono dedicati i quattro racconti della serie «Vita con fotoreporter». Partendo dalle proprie esperienze con vari fotografi, da Uliano Lucas a Luigi Baldelli, da Francesco Cocco a Emanuela Balbini, da Stefano Schirato a Marcello Bonfanti, da Alex Masi a Franco Guardascione, Mariangela Mianiti racconta l’unicità del legame che si crea fra reporter e fotoreporter. È una relazione di lavoro che, date le condizioni spesso difficili in cui svolge e gli imprevisti che si incontrano, può dare due esiti: o ci si detesta, o ci si stima e si diventa amici. La seconda opzione è, per fortuna, più frequente e ha creato coppie come Mario Dondero e Paolo Pernici, Luigi Baldelli e Ettore Mo. Le puntate escono ogni martedì: le prossime il 6, 13 e 20 agosto.
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È stata ed è una grande storia d’amore. Un po’ affollata anche, vista la lunga lista che comprende Uliano, Franco, Francesco, Stefano, Emanuela, Marcello, Calogero, Michele, Mici, Manfredo, Antonio, Luigi, Giulio, Marco e tanti altri. Con ognuno è stato diverso, da ognuno ho imparato qualcosa, tutti hanno lasciato la memoria indelebile di un lavoro fatto insieme. Quando un reporter e un fotoreporter lavorano gomito a gomito condividono adrenalina, divertimento, difficoltà, imprevisti, scomodità, ore di viaggio, levatacce, confidenze.
Insieme al fotoreporter ho esplorato città, strade polverose, deserti, grotte, case diroccate, città crollate o bombardate, carceri, ospedali, asili, storie personali, drammi. Con qualcuno ci siamo appostati in piazze assolate, con altri abbiamo seguito pellegrini in trasferta, con tutti abbiamo ascoltato, osservato, fatto domande, cercato. Quando si condivide tutto ciò possono succedere due cose: o ci si piace o non ci si sopporta. La prima cosa accade molto più spesso della seconda perché discende da una storia lunga e gloriosa che Uliano Lucas con Tatiana Agliani hanno raccontato molto bene in La realtà e lo sguardo. Storia del fotogiornalismo in Italia (Einaudi).
«PER INQUADRARE il rapporto tra fotografo e giornalista dentro la storia europea e americana del giornalismo – dice Uliano Lucas – bisogna guardare ai rotocalchi che strutturarono quel rapporto. ’Stern’, ’Paris Match’, ’Life’, ’Epoca’, ’Espresso’, ’l’Europeo’ sceglievano di costruire il racconto con quattro occhi e poi lo componevano con l’impaginatura. Sono nate così anche in Italia coppie storiche come Luigi Baldelli ed Ettore Mo, Gianfranco Moroldo e Oriana Fallaci, Mario Dondero e Paolo Pernici. Oltre alla stima e all’amicizia, quel rapporto si rispecchiava nella messa in pagina. Se fra gli anni Cinquanta e Settanta i rotocalchi italiani sono arrivati a vendere fino 20 milioni di copie è perché avevano capito che bisognava usare la fotografia non come linguaggio ancillare, ma protagonista e parallelo allo scritto».
PRIMA di partire in missione si possono avere idee precise o vaghe sul taglio da dare al servizio. La cosa più importante è essere disposti a seguire le tracce impreviste perché sono il viaggio e gli incontri a decidere il racconto che per uno è fatto di immagini, per l’altro di parole. Qualcuno tenterà di dirvi che ormai il giornalismo si può fare stando seduti al computer usando Google Maps e i social. Certo, sono strumenti preziosi, ma nulla potrà mai sostituire la forza di un’esperienza diretta. Nei luoghi bisogna esserci per poterli capire, le persone le devi guardare negli occhi per creare quella confidenza che permette di osare le domande difficili e gli scatti svelanti.
Altre volte l’essere lì serve a verificare di persona l’orrore, la rabbia, l’indifferenza, l’ingiustizia. In ogni caso reporter e fotoreporter sanno che è necessario mantenere la giusta distanza per non inquinare il lavoro con il sentimentalismo, il nemico numero di un buon reportage, almeno per me.
Lavorare in coppia a un reportage è molto diverso che lavorarvi da soli. Ci sono rischi e vantaggi. Sia gli uni che gli altri sono ascrivibili alla chimica dell’incontro fra giornalista e fotografo che si basa su alcuni ingredienti essenziali: esperienza, carattere, stile del mestiere, curiosità, disponibilità. Se uno dei due si sente superiore all’altro e sdottoreggia, porterà a casa solo un ego un po’ più soddisfatto che non serve a nessuno. Non è un caso se la maggior parte dei fotoreporter con cui ho lavorato non se l’è mai tirata benché molti di loro siano affermati a livello mondiale.
Ho avuto un inizio fortunato. Il mio battesimo professionale con il reportage è avvenuto accanto a un maestro, Uliano Lucas. Dovevamo andare per il settimanale «Gioia» in Etiopia a documentare la condizione dei bambini di strada e il lavoro di Terres des hommes nei centri dove aiutavano gli orfani e i profughi, conseguenza dalla grande siccità e carestia degli anni Ottanta.
ARRIVATI ad Addis Abeba, per due giorni girammo la città con una jeep. A ogni semaforo venivamo attorniati da bambini che chiedevano soldi o cibo. Gli occhi vivaci, i sorrisi festanti e i denti bianchissimi contrastavano con gli abiti macilenti, i piedi scalzi coperti di polvere, la magrezza dei corpi. Uliano osservava tutto e teneva la macchina fotografica in grembo. Sembrava impassibile. Andò avanti così per due giorni. Perché non scattava? Quando presi coraggio e glielo chiesi mi disse senza scomporsi: «Prima voglio capire». È stata la prima e fondamentale lezione di reportage. Mai scaraventarsi sulla prima cosa che vedi, ma osservare, studiare, assorbire i tempi, i gesti, gli spazi e la situazione di un luogo, cercare l’immagine che condensa il senso di una complessità. Vale per il fotoreporter, vale per il reporter che prima di scrivere deve lasciar depositare tutto ciò che ha visto e sentito. Dovrebbero impararlo anche tutti quelli che, grazie a un cellulare, appena arrivano in un posto prima scattano e poi, forse, guardano credendo così di saper fare delle foto, mentre hanno archiviato solo paccottiglia.
Che cosa si trattava di mostrare di quell’Etiopia di metà anni Novanta? La città con le ampie strade e i palazzi reminiscenza del colonialismo, l’abisso fra ricchezza e povertà, gli edifici governativi e le ville difese da guardie armate da una parte, dall’altra la gente che percorreva chilometri a piedi all’alba per recarsi al mercato o al lavoro, la fatica del lavoro fisico per l’assenza di macchine e infrastrutture, la bidonville con fogne a cielo aperto che ruotava attorno a una grande moschea appena costruita con il denaro arrivato da un Paese arabo. Erano i primi segni di un proselitismo religioso che avanzava facendo leva sulla miseria.
E poi, uscendo dalla capitale, la natura verde, il grande fiume senza argini che a ogni pioggia si portava via i raccolti, il lavoro della ong che raccoglieva gli orfani, dava loro istruzione e un mestiere, la massa di disperati che si concentrava attorno alle chiese copte, la silenziosa ostilità del sacerdote che con uno sguardo di assenso autorizzò un bambino a rubarmi nella borsa. Fu Uliano ad avvisarmi. Disse solo: «Stai attenta dietro di te». Mi girai di scatto, vidi il bambino che ritirava la mano e, dietro di lui, il prete appoggiato al muro. Mi fissava con odio. Lì capii la seconda cosa fondamentale di un reportage. È necessario rendersi quasi invisibili, diventare dimesso fra i dimessi. Solo chi si confonde fra gli altri ha il tempo e la libertà di poter osservare. Se stai tu al centro dell’attenzione, rischi di diventare preda o fenomeno che suscita curiosità, ed è l’esatto contrario di ciò che devono fare un reporter e un fotoreporter.
Poco tempo dopo, andai a Trieste a documentare la trasformazione avvenuta nell’ex ospedale psichiatrico dopo la legge Basaglia e il lavoro di ricucitura delle esistenze portato avanti dal gruppo di medici che lì lavoravano. Partii da sola perché Uliano aveva già scattato le foto che mi servirono per vedere in anticipo ciò che lui aveva documentato per mesi. In quel caso lavorammo in differita, cosa possibile quando si conosce la sensibilità dell’altro e ci si fida.
ALLORA non esistevano i file da scambiare online e Uliano procedeva così. Mi sembra di vederlo come fosse adesso. Arriva in redazione, si siede dall’altra parte della scrivania, apre le scatole con le stampe e lentamente, una a una, le mostra. A poco a poco si sviluppa un racconto per immagini, un viaggio in bianco e nero da dove sbucano suggestioni, contrasti, volti, gesti così forti da restare indelebili, come quelli di una ex paziente. Sta seduta al tavolino del bar del manicomio come se fosse Marilyn, le gambe accavallate, il volto rivolto verso l’alto a catturare un raggio di sole, sorridente, gli occhi chiusi e quella mano con cui si accarezza la gola. Finalmente libera.
1.continua
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