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La prima danza senza musica “y sin piruetas”

La prima danza senza musica “y sin piruetas”Maria Fux in una scena di "Dancing with Maria"

Il film Un incontro con Ivan Gergolet, il regista di "Dancing with Maria" la danza unica di Maria Fux, presentato alla Settimana della Critica di Venezia. Nel ricordo di uno stage sensazionale

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 28 febbraio 2015

Viste dall’alto potevamo sembrare i petali espansi di un grande fiore. Una corolla in movimento, un’azione pulsante. Ma non pensate alla somma di passi tutti uguali, all’ingranaggio perfetto di una coreografia da musical americano, né a quello squisitamente preordinato di una performance da nuoto sincronizzato: no. Immaginate una ottantina di donne in uno spazio (gli uomini, come spesso accade in questi casi, o sono assenti o sono pochi, e allora erano due, dunque ho chiesto alla nostra lingua di raccontarci al femminile), ciascuna in cerca del suo movimento, unico, irripetibile, che pure così facendo generano un tutto, un’armonia danzante, di cui lei era il centro, il soffio, il diapason. Rossa come il suo abito, come l’impulso che da lei a noi si diffondeva, fiammeggiante come il nastro tra i suoi capelli neri e raccolti, argentina come la sua origine e come la sua voce levigata di donna senza età che attraversava l’aria e la sala, in quell’istante e adesso, nell’incarnarsi prepotente del ricordo. «Volver», tornare. Allo studio di Maria «siempre se vuelve». Così risuona in Dancing with Maria, il documentario di Ivan Gergolet, apparso alla Settimana della Critica all’ultima Mostra di Venezia e ora, da giovedì 26, nelle sale italiane. Al centro dunque ancora una volta lei: Maria Fux, donna dall’abissale profondità di vita, danzatrice di lunghissimo corso, autrice di un metodo pedagogico seminato e coltivato ampiamente nel mondo. Chi ha danzato con lei, a lei ritorna, non dimentica, quanto meno con lo spirito. E così grazie anche a questo film anch’io sono tornata, a quegli istanti, agli abiti ai colori che avevo scelto, al mio corpo, al mio sentire di allora: Catania, marzo 2004, uno dei tanti seminari che, nel segno di un sodalizio fortissimo, fino a qualche anno fa era solita guidare in Italia: giornate in full immersion che avevamo desiderato e progettato in diverse amiche, ciascuna srotolando il filo della propria ricerca. Tra queste c’eri tu, M. A. Amica, sorella maestra specchio colonna del mio tempio: saresti mancata 5 anni dopo. Ma ora sei lì e stai danzando.
E Maria? Cosa ne sarebbe stato di lei? Ritrovarla nel film è come dissolvere il tempo di un decennio. La scorgiamo di spalle, incedere sicura sull’arco dei suoi novantadue anni, come creta, materia anagrafica da rimodellare all’infinito. Ecco: se oggi è più stanziale, pure attraversa i corridoi della scuola tutta per sé dove ogni giorno ancora l’attendono, spesso arrivando da lontano. Stavolta è in viola, sempre in pendant abito e fiore sulla nuca. Hola, si sparge la sua voce tintinnante, immutata aerea, invito all’ascolto sottile, al mistero del suono fuori e dentro di noi. Allora non ci sono giudici né test né performance ma solo uno spazio franco di contatto con sé e con l’altro, col respiro e col battito, coi ritmi della vita. (Pur con assonanze, si esplorano dunque territori altri dal bellissimo lavoro di Wenders su Pina Bausch).
Da tutto questo, dall’orbita Fux e dall’universo della danza, Gergolet, mi racconta, credeva d’essere distante: non sapeva di quell’anello di congiunzione. «A volte le persone a noi più vicine custodiscono mondi meravigliosi a noi ignoti. È stata mia moglie Martina (Serban, ndr), che dal 2006 frequentava i corsi di Maria a Milano, a coinvolgermi in un viaggio per incontrarla nel suo studio di Buenos Aires. Insieme siamo partiti da Trieste. Portavo con me la videocamera, ma l’idea era semplicemente quella di girare una intervista per uso privato, «familiare», senza nessuna intenzione di farne un documentario. Quei materiali li ha visti però il mio produttore che mi ha ispirato a tornare in Argentina per proporre a Maria il progetto». E lei? «Non si è stupita, da tanto è al centro dell’attenzione nel suo Paese e non solo; quello che non si aspettava era un lavoro che di fatto, tra i miei andirivieni intercontinentali, si è protratto per quasi 4 anni». Tempo. Dallo sguardo un po’ rapito delle sue allieve di oggi, il doc ci catapulta tra le danze di Maria giovane ballerina, evanescente come in una foto di Francesca Woodman, tra bianco e nero e filmati di repertorio, melange coi giornali d’epoca e sue improvvisazioni «Gillespiane». Nota bene però: non è un film biografico. «Nonostante la biografia personale di Maria (che continuavo a indagare), sia assolutamente materia da film, non era questo che volevo. Certo, lei ha attraversato tutta la storia argentina del ‘900 e non solo, negli anni ‘40 ha portato la sua danza rivoluzionaria fin nei posti più poveri e degradati del suo Paese, nel ‘54 è stata la prima artista occidentale a esibirsi oltre la cortina di ferro, in Polonia e in Russia. Malgrado tutto questo però, malgrado i suoi amori e i suoi tre mariti, io ero rimasto toccato da quanto stava accadendo in quel momento nel suo studio. Ho avuto la fortuna di arrivare in un frangente speciale, in cui lei stava confrontandosi con il suo corpo e con la sua anzianità molto avanzata e in cui, al tempo stesso, tante donne stavano compiendo trasformazioni profonde grazie a lei. Un film biografico ha senso se si può mettere la parola fine. La biografia di Maria Fux invece è tutt’altro che finita: non ha mai smesso di ricercare». A tratti però, in voce off, tracce biografiche affiorano. Dalla migrazione dei nonni materni, ebrei di Odessa con 13 figli, che si rifugiano in Argentina per sfuggire alle persecuzioni, a Maria, maggiore di 6 fratelli, con un padre gioielliere che perde tutto nel ‘30 e che dapprima è avverso al suo voler essere danzatrice, al matrimonio e poi al divorzio quando suo figlio ha 7 anni e quando lei si mantiene solo con il suo lavoro. Chiedo al regista come mai non ci siano comunque accenni al suo vissuto durante la dittatura, considerato anche che la danza e la ricerca di Maria, con la loro incontenibile passione per la vita, esprimono una antitesi assoluta del mortifero di quel periodo. «Non è propensa a raccontare del proprio passato: vive tutta nel presente e rivolta al futuro. Per quanto riguarda gli anni della dittatura, io sapevo che era stata costantemente minacciata dal regime, ma lei di questo non ha mai voluto parlare. Cosa che ho rispettato. Ciò nonostante quel tempo emerge comunque indirettamente attraverso la storia di Maria Garrido, la bambina Mapuche ritrovata in condizioni di vita primitive in una grotta in Patagonia da poliziotti che erano in cerca di guerriglieri e oppositori». Ma come incrocia Maria Garrido la nostra Maria? E chi sono le allieve di quest’ultima, che strada hanno alle spalle: la sua è una danza solo per professionisti, per pochi, per tutte/i?
«No soy una bailarina de hacer piruetas!» dirà un giorno lei, che pure come tante bambine del mondo inizia con la danza classica. Già però a 15 anni, leggendo la vita di Isadora Duncan, sente ardere in sé una direzione altra. Quindi gli anni newyorkesi, sacrificati tra il lavoro e la scuola di Martha Graham cui riesce finalmente a mostrare le sue «anomale» danze, senza coreografia fissa, inafferrabile jam session dell’anima e del corpo che sarebbe piaciuta a Eraclito. «Sei un’artista: torna in Argentina e non aspettare nessun maestro, il tuo maestro è la vita», si sentirà dire da colei che le sembra inarrivabile. E vita sarà, la più ampia possibile. Segnata dalla memoria corporea di sua madre – sua grande sostenitrice – cui ancora bambina, causa infezione, era stata asportata la rotula (che Ferrante per la sua «contagiosissima» Elena Greco si sia ispirata a lei?), Maria lavorerà allora sui limiti, per conoscerli accettarli superarli: i suoi, gli altrui. Perché sempre e comunque ciascuno ha i propri: armatura di strappi mancanze cuciture inibizioni, traumi, automatismi e chi più ne ha … senza soluzione di continuità tra differenti forme di «non posso» e disabilità. È così che, vedendo dal tram un’ultima foglia che sta per lasciare l’albero, diverrà foglia lei stessa, creando la prima danza senza musica, mossa soltanto dal ritmo del vento. Da quel silenzio danzerà con chi non sente, con chi non vede, integrerà il vissuto di chi come Diana porta su di sé gli effetti della poliomelite, come Macarena della sindrome di down, o come Martina, la moglie del regista, di una perdita affettiva. Quando Maria Garrido giungerà da lei a Buenos Aires, sarà una «ragazza selvaggia» che non sente non parla e non sta in posizione eretta. Ecco, senza addentrarsi nello specifico teorico del metodo di danzaterapia Fux, il film respira attraverso la pelle danzata di tutte coloro di cui sopra. «Sulla sua metodologia lei ha scritto molto nei suoi libri. Io volevo raccontare i vissuti personali e corporei di chi segue i suoi seminari. Se resta uno spazio di mistero è perché un’esperienza non è mai raccontabile al 100%. Può essere solo vissuta». A questo punto non posso non chiedergli se è questa esperienza lui, pur da «sparuto uomo», l’ha attraversata in prima persona. «Il vero scambio con Maria è cominciato quando ho iniziato a relazionarmi con lei anche dal punto di vista del corpo. Lei sa che difficilmente il corpo inganna ed è così che vuole conoscere l’altro. Quando ha visto che ero disposto a uscire dalla zona di confort che ti danno telecamera e cavalletto, anche lei si è resa propensa ad aprimi di più le sue porte». Infatti ci sono momenti davvero struggenti in cui la vediamo allenarsi di notte da sola nel suo studio. Visioni magnifiche a contatto con la sua fatica, in cui al tempo stesso ci si sente di troppo. «Quelle le ho rubate e lei si è anche incazzata». E ha fatto bene … A questo punto, cosa cruciale, gli chiedo come è cambiato il suo modo di riprendere da quando ha vissuto tutto questo non solo con gli occhi ma con tutto il corpo. «Il film ha cominciato a vivere nel momento in cui sono riuscito a filmare l’esperienza altrui dopo averla conosciuta io stesso. Di quanto avevo filmato prima quasi nulla è entrato a far parte del doc». Infine le musiche. Qualcosa di grande. «Da Bach a Vollenweider», allora c’era, sì c’era, e poi l’apporto profondissimo di Luca Ciut con le musiche originali. «Abbiamo lavorato in modo molto particolare. Avevamo chiesto a Luca di concepire dei temi in cui risuonasse la dimensione emotiva dei singoli personaggi. Su quei campioni abbiamo poi rimontato e al tempo stesso lui li ha rielaborati per renderli coerenti con i movimenti delle danzatrici. Il risultato è sorprendente, qualcosa che chi scopre il film nota sempre». Quella musica. Rivedendo il doc, non posso non danzarla … non riportare indietro il cursore sul pc. Ecco l’abbraccio di Maria, quella fermezza autorevole con cui conteneva, accettandole, le nostre differenze, pur senza conoscere le nostre vite, il suo sguardo che ho cercato e trovato per un lampo, occhi negli occhi, come eco di mille antenate. Accettati, accolti, questo si respirava in quei giorni. E tu M. A.? muovendomi, ogni tanto sbirciavo dal tuo lato. Ecco, tra tante ti ritrovo, ti vedo. Il mio movimento, che nella velocità trova pace, e il tuo che si fa sempre più lento intimo, orientale. Basta parlare danziamo, era il titolo iniziale di un film egiziano di qualche anno fa. Chissà per quali traiettorie ci incontreremo.
maria_grosso_dcl@yahoo.it

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