Cultura

La prima camminata di un bambino preistorico

La prima camminata di un bambino preistoricoL'impronta del bimbo di poco più di un anno riemersa durante gli scavi a Melka Kunture

Paleontologia Margherita Mussi e Flavio Altamura, coordinatrice e direttore degli scavi in Etiopia a Melka Kunture, raccontano la scoperta delle impronte infantili di 700mila anni fa

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 22 aprile 2018

Settecentomila anni fa, i bambini camminavano sul tufo, in Etiopia. E giocavano sulle rive di un fiume. A individuare quell’infanzia preistorica in alcune impronte sono stati gli archeologi coordinati da Margherita Mussi e diretti da Flavio Altamura, del Dipartimento di scienze dell’antichità dell’università La Sapienza di Roma.
Il loro studio, pubblicato a febbraio su Scientific Reports ha restituito in tinte neorealiste immagini quotidiane che raccontano l’epifania dell’archetipo di società umana. Protagonista è Homo heidelbergensis con il suo quarto stato: non guerrieri, ma uomini comuni, donne e, finalmente, bambini.

«A MELKA KUNTURE si scava da oltre cinquant’anni – spiega Margherita Mussi – Il sito è tra i principali dell’Africa Orientale. Tuttavia, le difficili condizioni politiche hanno ostacolato per anni le ricerche, trasformando in una Bella addormentata nel bosco un luogo che poteva rivaleggiare con Olduvai, la celebrata culla dell’umanità». Quest’ultima sorge intorno ai mille metri, Melka Kunture invece si trova a un’altitudine doppia in un ambiente freddo e piovoso. «Ci offre quindi la possibilità di uscire dal quadretto di genere dell’uomo preistorico che si evolve nella savana – continua l’archeologa – Anche per questo è nella Tentative List per il Patrimonio Mondiale Unesco, oltre che per una lunghissima sequenza che si estende da 1800mila fino a 150mila anni fa».
Flavio Altamura si è occupato nello specifico del sito di Gombore II-2, noto soprattutto per la macellazione da parte di heidelbergensis di due ippopotami. «Non si trattava però di carogne», chiarisce. «Piuttosto di carne fresca di animali appena morti, facile da reperire presso quei primitivi supermercati all’aperto costituiti dalle sponde di specchi d’acqua.
Sul sito erano già state condotte campagne di scavo nel 1974 e tra il 1993 e il 1995, sotto la guida della missione francese di Jean Chavaillon. In un’area di 30 metri quadrati erano state trovate ossa di ippopotamo insieme a pietre scheggiate sul posto. Si era perciò dedotto che l’uomo intervenisse sulle carcasse, vincendo la competizione con gli altri animali grazie alle sue avanzate competenze tecniche.
«Tale livello archeologico era sigillato da un accumulo di tufo di origine vulcanica datato, tramite il metodo radiometrico Argon-argon, a 700 mila anni fa», racconta Altamura. Giacendo appena al di sotto, si era probabilmente formato una stagione prima. «Dal 2012 abbiamo ripreso le indagini e tra il 2013 e il 2015 abbiamo aperto 35 mq di nuova area di scavo».

RIMUOVENDO IL METRO di tufo che ricopriva lo strato dove era avvenuta la macellazione, gli archeologi hanno riscontrato in sezione grandi strutture a forme di campana che sprofondavano dalle sabbie soprastanti. «Ci è venuto il sospetto che potessero essere impronte, piuttosto che tronchi d’albero inglobati dalle ceneri vulcaniche o bolle di gas», racconta ancora l’archeologo. «Si notavano poi delle strane appendici: le dita degli ippopotami, come avremmo scoperto in seguito».

ANZICHÉ RIEMPIRE le cavità con il gesso come a Pompei, il team italiano ha svuotato i riempimenti facendo emergere i calchi positivi – natural track cast – e ottenendo così le forme dei tessuti molli di un mammifero ormai estinto: un ippopotamo gigante. Poi li hanno consolidati. «Ora sono in un magazzino di Addis Abeba», aggiunge Mussi. I calchi mostrano dita aperte per non affondare di zampe che misurano 40 centimetri di diametro, molto più che nella specie vivente.
«Gli ippopotami sono abitudinari; pascolano nella stessa area e di notte, perché hanno una pelle delicata», continua la studiosa. «Camminano su e giù lasciando una trincea di passaggio: la pista di Gombore II-2. Abbiamo quindi evidenziato un comportamento etologico simile a quello attuale». Gli ippopotami, abitudinari anche nel disastro, sono arrivati subito dopo l’eruzione e loro soli, forse unici sopravvissuti, hanno camminato sul tufo ancora morbido.
Prima dell’eruzione, invece, è documentato uno strato di limo con compresenza di ossa e industria litica: c’era del fango, doveva esserci uno stagno, c’erano macchie di sabbia sulla superficie di limo. «Memori di quanto attestato al di sopra, abbiamo cominciato a svuotarne alcune per tentare una diagnosi», ricorda Altamura. «Le prime, anche qui, si rivelarono orme di ippopotamo. Procedevamo con difficoltà: con un po’ di pioggia le macchie sarebbero tornate fango. Poi all’improvviso, nel 2013, apparve qualcosa di diverso». Un’inconfondibile orma umana, lunga tuttavia solo 11 centimetri. Possibile che appartenesse a un bambino?
«Flavio (Altamura) mi telefonò incredulo: “Non mi convince, non si vede l’arco del piede”», ricorda Mussi. «Io però sono una nonna e so che i bimbi hanno i piedi piatti. Quello era un piede, e dimostrava un anno di età». Era soltanto l’inizio: il primo passo.

PERCHÉ NEL 2014, indagando altri 10 metri quadrati, si presentò un palinsesto fittissimo di orme, sovrapposte come accade ai margini di una pozza d’acqua dove gli animali accorrono per bere. La traccia di qualche settimana di furioso calpestio. Undici impronte umane, di uomini, donne e bambini, tra piccole zampate di uccelli.
Per ampliare il campo dell’analisi sono stati coinvolti il belga Kristiaan D’Août, esperto di anatomia biomuscolare che da anni campiona le pedate lasciate nel fango a margine di feste private da bambini britannici, ben felici di collaborare così alla ricerca scientifica, e l’icnologo inglese Matthew R. Bennett.
Le impronte di Melka Kunture testimoniano, come detto, attimi fuggenti di heidelbergensis qualunque, non i soliti orizzonti di gloria di cacciatori maschi. «Abbiamo orme di adulti, altre di adolescenti e di giovani donne», spiega Margherita Mussi. Forse un gruppo familiare. Gente normale che mangiava carne di ippopotamo. «Per gorilla e scimpanzé, primati a noi simili, non esiste il concetto di famiglia con papà, mamma e bambino: la madre sta con i piccoli, i maschi sono un mondo a parte, non proprio amico», precisa l’archeologa. Deve esserci stata tuttavia una fase di passaggio in cui il maschio ha maturato la transizione da un ruolo prettamente biologico di fecondazione a una condizione in cui si rende necessario sistematicamente e per il lungo periodo dell’infanzia dei figli.
Dalle parole della coordinatrice del gruppo di ricercatori che ha operato in Etiopia, emerge tutta l’ìmportanza di questa scoperta. «A un certo punto dell’evoluzione, la figura maschile è diventata fondamentale anche a livello sociale: insegnare a fragili piccoli a sopravvivere, macellare un ippopotamo, tenere alla larga gli altri carnivori. Il quadretto di vita restituito da Gombore II-2 potrebbe così aiutarci a visualizzare il momento nel quale da diverse componenti biologiche si forma un gruppo sociale, la nostra specie compie la sua scelta vincente».

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