Il film cult di William Friedkin è tornato ieri per un solo giorno in sala.  L’estratto che leggete è tratto dalla monografia  ‘William Friedkin’ di Giulia D’Agnolo Vallan (Torino, 2003). Il regista sarà alla prossima Mostra del Cinema di Venezia,  per ricevere il Leone d’oro alla carriera. Nell’occasione sarà proiettata la versione restaurata di ‘Il salario della paura’.

Si tratta di una sequenza prevalentemente visiva. Non ci sono dialoghi. Non in inglese comunque, solo una manciata in arabo. Un semplice susseguirsi di inquadrature: per suggerire la paura e il presentimento. Per introdurre il personaggio di padre Merrin, una figura del vecchio mondo in una delle più antiche civiltà del mondo.
Su uno sfondo colorato, allegro. In un paese poverissimo. Merrin che scopre, in uno scavo archeologico, un amuleto che raffigura il demone Pazuzu. E che poi si ritrova in un luogo di vecchie rovine. Padre Merrin stagliato di fronte un’enorme statua di Pazuzu.
É una sequenza molto difficile da far funzionare. Giocata interamente su umori e atmosfere. Non succede nulla. Nessuno dice niente. Nessuno fa nulla.
Si vede un uomo anziano lavorare da archeologo. Trova qualcosa nel terreno. Che si scopre essere l’ amuleto di Pazuzu.
Ha il presentimento che dovrà di nuovo, e presto, affrontare il suo vecchio nemico, com’è già accaduto nel passato. Da esorcista. Ora, nulla di tutto ciò è chiaro nella prima sequenza. E so che molti lettori del romanzo non hanno colto il significato di questo prologo.
È scritto in modo un po’ ermetico. Ed è oscuro fino a ben più avanti nel romanzo, quando riappare padre Merrin – che infatti è l’uomo anziano del prologo. E il motivo della sua paura e del suo tremore.
Lo stesso vale per il film. È un rischio tremendo inserire una cosa così in un film, o in un libro. In realtà, Blatty aveva provato a eliminarlo dal romanzo. Per poi scoprire che il libro era, in un certo senso, incompleto senza questo prologo. Così come io penso che il film sarebbe incompleto senza questa parte. Perché introduce un che di misterioso e di strano, senza aver nulla a che fare con la trama centrale. Prepara il pubblico a qualcosa.
Lo prepara a un’esperienza mistica. E se la sequenza d’apertura è efficace, può prepararlo in modo anche più vivido e chiaro rispetto al romanzo. Pur restando molto suggestiva e misteriosa.
È una vera sfida, per me, rendere le immagini misteriose ed evocative, e suggerire (…) questa sorta di premonizione provata da Merrin. E, allo stesso tempo catturare il sapore dell’Iraq.
Devo pensare molto attentamente a ogni inquadratura, essere sicuro che questa idea traspaia. Che non sia solo una bella serie di inquadrature da cartolina. Come potrebbe facilmente diventare.
Temo che alcune delle inquadrature che ho girato finora possiedano tale qualità. È dura resistere a quello che vedo. È dura trattenersi dal filmarlo in uno stile da cartolina. Ed è molto difficile trovare un modo per rendere le inquadrature suggestive, impressionistiche, evocative, misteriose.
È molto più facile sistemare una bella cornice intorno a tutto e che Max von Sydow ci cammini in mezzo. Ma non assolverebbe allo scopo. Questa repentinità, questo mutamento di umore e colore. Il volto. Fuori e dentro la luce. Che appare, fuori e dentro la luce.
I volti scuri di questa gente. E le lunghe ombre, e il caldo. A Hatra sono stato attentissimo a tentare di fare di ogni inquadratura l’evocazione di una sorta di immagine misteriosa.
E devo cercare di provar piacere nel girare questa sequenza. Devo esser consapevole di trovarmi in una delle città storiche della civiltà mondiale. E sentirmi onorato e privilegiato di essere qui.
E sforzarmi, a dispetto delle terribili difficoltà, di catturare qualcosa della poesia e della bellezza e del mistero di questo luogo, in questo particolare momento. Quando le relazioni tra i paesi sono tese. Ma è tutto lì fuori, pronto per essere filmato. La sequenza è lì, aspetta di essere catturata. C’è bisogno di pazienza, e della lungimiranza e della comprensione degne di un bird-watcher o di un entomologo, comunque di un bravo artista. La sera, catturare la luce della lanterna sul fogliame di un albero. Questo sto cercando. Luci intense, e ombre.
Il modo in cui cade la luce. Su un volto, o dall’altra parte del tavolo … Tutte le immagini devono esser delicate, e suggestive. Abbiamo scoperto tre maniscalchi che lavorano nella parte del souk dedicata ai fabbri, e abbiamo costruito una zona per loro nella kasba. I tre maniscalchi lavorano all’unisono, scandendo coi loro colpi un suono ritmico e costante. Uno di loro è cieco da un occhio.
Li usiamo nella kasba perché diano vita a un battito pulsante che accompagni l’intera sequenza e sottolinei il malessere di Merrin quando ha una sorta di attacco cardiaco, che calma con le sue pillole di glicerina.
Sto usando questi maniscalchi in una sorta di maniera simbolica. Come se preconizzassero le tensioni e i conflitti che Merrin sente dentro di sé. E che più tardi dovrà fronteggiare quando lotterà con il demone.
Ombre. Devo ricordarmene, ed enfatizzarle nelle inquadrature in strada, quando Max cammina per le viuzze irachene. Sguardi dall’ombra. Volti. Mentre passa accanto alla moschea con i fedeli in preghiera.
Dev’esserci qualcuno che guarda nell’ombra, che coprirò con la seconda m.d.p. (macchina da presa, ndr). Quando Max cammina nella strada con le porte. Un arabo vestito di scuro, meglio un curdo, che se ne stia semplicemente lì. Su una soglia, nell’ombra. Che lo osservi camminare.
In questi ultimi giorni di riprese, e per un certo periodo da quando sono in questo paese, ho perso di vista l’essenziale qualità di mistero e d’ombra che devo inserire in questa sequenza. Ma non è troppo tardi.
Posso recuperarla.
Ho ancora tutta la parte di Hatra da filmare. E negli scavi voglio aggiungere un paio di figure misteriose (…).
Ora mi pare quasi profetico che non sia riuscito a terminare oggi la scena nella kasba. Perché posso ancora inserirvi qualche ombra, giocare con dei chiaro-scuri. Idea che non mi aveva neppure sfiorato fino a stasera. O forse sì, ma l’avevo persa di vista.
Non importa quanta prepazioni fai, o quanti appunti prendi, o quanto scrupolosamente lavori sulla sceneggiatura, né aver vissuto con un progetto, come io ho fatto con questo, per un anno e mezzo: tendi a perdere di vista le tue intenzioni originarie.
Molte delle quali erano ottime. Talvolta le tue intenzioni cambiano e si modificano lungo la strada. Ma le idee veramente buone, quelle valide, devono rimanere in cima ai pensieri, o finirai per girare inquadrature prive di significato.
E io sono caduto in quella trappola un’altra volta, qui in Iraq. Devo tornare in carreggiata. Devo immettere quel senso di mistero in ogni fotogramma. Mistero, e inquietante presentimento. Ecco cosa sono venuto a girare. Non Arabian Nights, variopinti copricapi arabi, venditori ambulanti, o passanti che trasportano sul capo vasellame e pacchi vari. No, sono qui per catturare un senso di mistero e di premonizione.
Stanotte ho avuto un leggero attaco di diarrea. Crampi allo stomaco. Negli ultimi giorni non ho dormito molto bene. Spero di non ammalarmi. Ho bisogno di tuta la forza possibile per completare le riprese da qui.
In molte occasioni, negli ultimi giorni ho notato che von Sydow non mi parla mai del suo ruolo: si limita ad ascoltare le mie indicazioni in una sorta di sonnambolismo, facendo al meglio che può ciò che gli dico, ma direi senza una profonda comprensione del suo personaggio.
In molte occasioni, in questi ultimi giorni, mi ha chiesto di finire le sue scene a Mosul, a Hatra. Di girare prima tutto quello che devo girare con lui, e lasciare le inquadrature che non lo prevedono fuori sequenza.
L’idea mi lascia perplesso. Perché ho sempre preferito girare in sequenza. E poi perché penso che girando troppo fuori sequenza ci si possa ritrovare con problemi di successione logica. O con delle incoerenze. Questo da un lato.
Dall’altro, girare in sequenza mi fa sempre venire delle idee, da una particolare inquadratura a un’altra. E spesso cambio opinione su un’inquadratura già prevista dopo aver girato quella precedente.
Perciò, anche se capisco il desiderio di Max di finire e andarsene, un desiderio che tutti noi condividiamo, non apprezzo l’idea di girare fuori sequenza. E sono sorpreso che abbia insistito più volte su quest’argomento.
Perché gli ho spiegato che non sarebbe la cosa migliore per il film, davvero.
Ma, ogni volta che mi ripete questa richiesta, colgo una veemenza impercettibilmente maggiore, e può darsi che debba trovare il modo di accontentarlo.
Non abbiamo visto neppure un giornaliero a Mosul. Di quel che abbiamo girato a Mosul, niente. La pellicola viene subito spedita a Baghdad non appena impressa. E da lì parte per il laboratorio di Londra. Parecchi giorni dopo, arriva un telegramma dal supervisore del laboratorio. Che ci informa … che ci fa un resoconto tecnico se abbiamo un’esposizione o no, o se la pellicola è velata o graffiata o in qualche modo danneggiata. Finora, fortunatamente, tutti i rapporti del laboratorio sono positivi. Sotto questo aspetto.
Ma non ho idea, non posso averla, della qualità del lavoro che stiamo facendo qui. Per molti aspetti è meglio. Perché probabilmente, se potessi vedere i giornalieri come faccio di solito, forse vorrei rigirare alcune cose. È il modo in cui ho lavorato a New York. Ero fortunato a totalizzare tre o quattro buone posizioni di macchina, a New York, nei mesi finali di riprese.
E le vedevo il giorno successivo. E ne rigiravo due il giorno seguente. Perciò, anche se è frustrante non sapere se stiamo ottenendo il tipo di atmosfera che voglio per queste scene, né se le performance funzionino, se le inquadrature connettono una con l’altra o se posseggono l’aspetto che ho in mente… se è tutto ciò è frustrante, d’altra parte è anche positivo, perché ci obbliga ad andarea vanti. Non stiamo rigirando nulla.
L’unica soddisfazione finora, è andare di tanto in tanto nella camera di Jean-Louis Ducarme e ascoltare i suoni che ha registrato. Al solito, li ha registrati per conto suo.
Lo scalpitio dei cavalli sul selciato, l’intonazione della preghiera in una moschea. Il richiamo del muezzin ai fedeli. Il suono del rituale sufi che abbiamo registrato. O l’atmosfera generale nelle strade e nei mercati .
Comincio a pensare che se il film sarà evocativo quanto alcuni dei suoni che abbiamo, sarà un buon film.
I suoni di Ducarme mi incoraggiano molto. E ho la sensazione che l’intera sezione irachena dipenda in tutto e per tutto dal suono. Perché ci sono pochissimi dialoghi. E quelli che ci sono, sono tutti in arabo.
Inoltre non sono molto significativi. Ma se si riesce a pensare alla sequenza in termini di suono coreografato… Dal muezzin nella moschea al rituale sufi, fino alle inquadrature degli operai degli scavi, accompagnate dai suoni del loro lavoro e dei loro canti, fino ai potenti suoni da souk della kasba … Fino al silenzioso, quasi impercettibile ticchettio dell’orologio nell’ufficio del sovrintendente. Che cessa all’improvviso. Senza preavviso. Fino, poi, ai suoni remoti e attutiti della strada e delle carrozze a cavallo che passano. Che cullano… inducendo una sorta di passività mentale, fino a che il suono delle carrozze non diventa più forte, potente, pieno. E padre Merrin è quasi travolto da una carrozza. In strada.
E poi al quasi silenzio della scena alle rovine di Hatra. Useremo soltanto un po’ di vento. Forse. O un suono ovattato di passi. Il suono di uccelli lontani.
(…) Venerdì 6 luglio abbiamo terminato con Max von Sydow. E, insieme a lui, con Dick Smith e Rick Baker – i due responsabili del make-up. Abbiamo girato otto inquadrature questa mattina. Nel sole caldo, bollente, del deserto, con la sabbia che ci sferzava la pelle. Otto inquadrature di Padre Merrin chiamato nel buco dove è stato trovato l’amuleto di Puzuzu.