Giorgia Meloni è uscita a testa alta dall’arena della Cgil. Prima di tutto perché c’è andata scontando il rischio, in realtà limitato ma non inesistente, di contestazioni. Certo la ha aiutata la gavetta, ormai sconosciuta ai delicatissimi politici italiani, della politica di strada e di sezione: «Mi fischiano da quando avevo 16 anni. Potrebbero farmi Cavaliere al merito». Poi perché ha saputo mostrare rispetto senza però cercare di vellicare la platea, tranne forse, ma appena appena, quando ha strappato un timido applauso denunciando l’aggressione «di manifestanti di estrema destra», contro la Cgil stessa. Preludio peraltro a una assurda equiparazione degli anarchici alle Br. Uno sfondone, se non fosse che se lo sono fatti scappare in tanti, da tutte le parti, e quasi non si nota.

MA SOPRATTUTTO la premier esce vincente da una prova non facile perché si è presentata per quello che è: una leader di destra. Non di destra sociale, non di destra populista, ma compiutamente di destra: liberista, convinta che la strada maestra per risolvere le croci alle quali sono inchiodati i lavoratori italiani e che non manca di citare, la disoccupazione cronica, i salari più bassi d’Europa, passi per il sostegno alle aziende: «Non si abolisce la povertà né si alzano i salari per decreto. La ricchezza la creano le aziende e lo Stato deve fare solo le regole». Non avrebbe potuto dirlo meglio di fronte a una platea di Confindustria o a un convegno sull’attualità di Milton Friedman.

Dire come a volte capita che questo governo «odia i lavoratori» è caricaturale. La realtà è meno subdola ma più aspra. Meloni, come tutta la destra liberista, crede davvero che per i lavoratori e i poveri non ci sia altra strada che l’incremento dei profitti dei più ricchi. Che le contrapposizioni, «necessarie e salutari», si possano e debbano ricomporre in nome della Nazione. Che il solo criterio per garantire giustizia sociale sia «il merito», declinato nell’accezione di pura competizione, dato e non concesso che ce ne sia un’altra. Che il sostegno ai più disagiati, insomma il reddito di cittadinanza, significhi far loro danno a meno siano proprio nell’impossibilità di lavorare. Che la sua riforma fiscale, illustrata ieri al congresso non essendocene stato il tempo subito dopo l’approvazione al consiglio dei ministri, vada a vantaggio non solo dei più ricchi ma anche della fascia all’estremo opposto della scala sociale, dei lavoratori. Come? «Ampliando sensibilmente lo scaglione di prima quota per ricomprendere al suo interno molti lavoratori dipendenti».

IL DISCORSO CON CUI la premier illustra la sua idea di politica sociale è abile. Parte sempre dal lavoro, come è ovvio data la sede, gioca con i tasti giusti. No al salario minimo, perché «rischia di diventare una tutela non aggiuntiva ma sostitutiva facendo un favore alle concentrazioni economiche». Molto meglio «lavorare insieme a un sistema di ammortizzatori uguali per tutti» e intervenire con «l’estensione dei contratti collettivi a tutti i settori e la riduzione del carico fiscale sul lavoro». È una tesi non molto diversa da quella sostenuta a lungo proprio dalla Cgil e se la ricetta è poco praticabile nelle condizioni reali del mercato del lavoro di oggi in compenso è impacchettata bene. No al reddito di cittadinanza perché «non si può mettere nello stesso calderone chi può e chi non può lavorare e dopo tre anni di reddito di cittadinanza un ragazzo di 30 anni sta peggio di prima». Ottimo motivo per lasciare il succitato ragazzo senza un soldo anche nei tre anni in questione.

La premier deve tirare l’argomentazione un po’ per i capelli se, partendo dal lavoro, vuole farci entrare anche il coronamento politico del suo progetto, il presidenzialismo o almeno l’elezione diretta del capo del governo. Se la cava sostenendo che la riforma presidenzialista non assicura solo «il rispetto della volontà popolare» ma garantisce anche la stabilità, senza la quale non è stato sinora possibile impostare una vera politica economica.

Alla fine della prolusione è o dovrebbe essere chiaro che accusare il governo di destra di non avere un progetto di politica sociale è del tutto fuori luogo. Ce l’ha, la premier ha colto l’occasione per illustrarla e va combattuta.