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La povertà, razzismo d’Europa

La povertà, razzismo d’Europa

I perché della lista Tsipras Fingere che lo spettro dell’indigenza non ci riguardi ha lasciato un enorme numero di persone senza rappresentanza

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 26 marzo 2014

«La casa di tutti noi è in fiamme, anche se ognuno cercasse rifugio nella sua tana minuscola e illusoria». Sono state forse queste parole – contenute nell’appello con cui alcuni intellettuali hanno sentito che occorreva guardare alla Grecia come a una sorella – a convincermi che qualcosa di nuovo stava accadendo: l’irrompere della realtà, la necessità di nominare la miseria come una presenza che ci interpella, che minaccia le nostre esistenze, che erode un mondo di concetti di cui ci è rimasta in mano un’inutile se non dannosa carcassa.

Né l’Europa divisa nuovamente in caste è un rifugio, né lo è la nostra esistenza piccoloborghese, dove la parola «povertà» ha finora riguardato solo e sempre gli altri.

Perché l’Europa – intesa come mostro burocratico al servizio del capitale industriale e finanziario – abbia ogni interesse a occultare la questione sociale, è evidente: ridurre la sofferenza degli uomini e delle donne a numeri, statistiche, sottocommissioni, regolamenti e procedure significa anestetizzare la rabbia, la ribellione, la reazione collettiva. Significa rendere la disoccupazione, il licenziamento, la perdita di ogni possibilità di sostentamento, la debolezza davanti alla malattia e alla vecchiaia, una questione privata, un fallimento dei singoli. Ma perché la questione sociale sia stata considerata marginale dai partiti della sinistra, che proprio nel non sapersene fare interpreti hanno decretato il loro disfacimento, è meno evidente. Da un certo punto in avanti, la sinistra ha smesso di rappresentare i più deboli, è diventata sorda al dolore, all’umiliazione, ha delegittimato ogni sentimento di rivolta di fronte al sopruso. Si è fatta partecipe e mediatrice di politiche devastanti, alimentando dottrine di sacrificio di fronte al disastro, assumendo il concetto di crisi come fenomeno naturale, sciagura ineluttabile dalla quale solo gli esperti possono trarci in salvo.

La povertà, parola impronunciabile, è diventata – da ossificazione nelle figure rassicuranti perché estreme del clochard, del barbone, del senzatetto, del drop-out – una questione di atti amministrativi, normativi, una materia di direttive: una politica occultata sotto sigle illeggibili che in Grecia si è concretizzata nel fatto che i malati muoiono di cancro senza più assistenza ospedaliera, che le università chiudono, che il tasso di mortalità neonatale giunge alle percentuali di quello che eravamo soliti chiamare Terzo Mondo.

Abbiamo ancora nelle orecchie gli eufemismi ai quali sono ricorse, nel tempo, diverse dittature per mascherare i propri atti criminali: la mattanza compiuta dalla dittatura argentina, che fece sparire trentamila oppositori gettandoli in mare dagli aerei, venne chiamata «processo di riorganizzazione nazionale»; l’eliminazione industriale nelle camere a gas di sei milioni di individui venne chiamata, nella Germania nutrita di Goethe, «soluzione finale della questione ebraica». Oggi, nella democratica Europa, nata sulle rovine della Seconda guerra mondiale come antidoto alle dittature, una politica economica agita da un potere sovranazionale con il vassallaggio dei governi democratici viene chiamata austerity, fiscal compact, pareggio di bilancio, ristrutturazione del debito.

Quando, tre anni dopo il default dell’Argentina, andai a Buenos Aires per scrivere un libro sulle Madri di Plaza de Mayo, ebbi modo di vedere i cartoneros che vivevano a migliaia nelle bidonville tutt’attorno alla città, e i bambini che si prostituivano in pieno giorno sulla centralissima Avenida 9 de Julio. La presidente delle Madri, Hebe de Bonafini, mi portò in un manicomio dove gli internati, che chiamava «prigionieri psichiatrici», erano abbandonati a se stessi, nella sporcizia, con quasi nulla da mangiare. Ricordo che, davanti al mio sconcerto, più volte mi disse: fai un errore se ci guardi come un mondo diverso dal tuo, siamo solo il primo esempio, la prima palestra del neoliberismo, arriverà anche da voi. «Noi Madri», ripeteva, «crediamo che i disoccupati siano i nuovi desaparecidos del sistema, e che la mancanza di lavoro sia uno tra i peggiori crimini contro l’umanità. Un lavoro degno è un diritto umano inalienabile e la sua mancanza porta con sé la fame dei bambini e la distruzione delle famiglie».

La casa di tutti noi è in fiamme, e le nostre tane sono minuscole e illusorie. Ma nominare la realtà è già di per sé un atto rivoluzionario: significa non solo uscire dall’oscurità, ma ritrovare un senso di fratellanza. Non un chinarsi sui deboli da una posizione di illuminata supremazia, ma un condividere affanni e speranze. Questo moto interiore è stato archiviato dalla sinistra televisiva e professionale come naïf, ciarpame di vecchie liturgie, con il risultato di lasciare agli arringatori di piazze la possibilità di parlare al dolore e all’umiliazione delle persone, al senso di rivolta contro l’ingiustizia, che ancora è la vera molla capace di farci uscire dalle nostre claustrofobiche e private prigioni.

L’incendio che avanza rischia di abbattersi sui paesi mediterranei chiamati Pigs – un acronimo che rimanda, più che a un lapsus, all’emergere di un antico disprezzo non sopito, benché si sia poi trasformato in Piigs, con l’ingresso dell’Irlanda, e sia stata coniata l’alternativa Gipsi, a dimostrazione di quanto i fantasmi non risolti della vecchia Europa razziale aleggino ancora nell’inconscio collettivo.

Uno spettro si aggira per l’Europa, ed è lo spettro della povertà. Ignorarlo, o fingere che non ci riguardi, ha lasciato un enorme numero di uomini e di donne privi di rappresentanza; esposti – come scriveva Hannah Arendt a proposito delle rivoluzioni francese e russa – a cadere dalla dimensione della libertà a quella del bisogno, deviando verso l’assolutismo. E il risveglio che ci attende all’apertura delle urne europee rischia di essere molto duro, con un’ascesa del blocco nazionalista, razzista e xenofobo che va dal Front National di Marine Le Pen, che potrebbe diventare il primo partito in Francia, a Jobbik, il movimento di estrema destra di Gabor Vona, attualmente terzo partito ungherese, passando per il partito belga Interesse fiammingo di Vlaams Belang e la lista Veri Finlandesi di Timo Soini, senza dimenticare Alba Dorata e la Lega Nord.

Veniamo da una storia che, nel Settecento, nel cuore dell’Europa, ha concepito l’ideologia che chiamiamo razzismo – ovvero la «naturale» supremazia dell’uomo occidentale, maschio, bianco, dotato di logos, nei confronti dei «selvaggi» delle colonie, gradualmente prossimi, in base al colore della pelle e ai tratti somatici, alla scimmia; una storia che, nell’Ottocento, con il darwinismo sociale, ha teorizzato e praticato la soppressione dei più deboli – dei malati, degli handicappati, degli omosessuali, dei «devianti» di ogni specie – tramite le dottrine dell’eugenetica e le pratiche di sterilizzazione forzata e di eutanasia; una storia che, nel Novecento, ha pianificato e attuato lo sterminio su base razziale, con l’invenzione delle camere a gas e dei campi di annientamento. C’è una gerarchia del disprezzo, il cui precipizio abbiamo visto in Auschwitz, che la nostra tradizione di pensiero ci ha addestrato a riconoscere come «naturale», articolandola in uomo-donna, cultura-natura, logos-barbarie. È con questa tradizione che dobbiamo fare i conti. Non serviranno le liturgie della memoria a preservarci dal ritorno di quella furia omicida, ma solo un profondo ripensamento delle radici culturali che tutt’ora ci nutrono.

Se anche è stata dimostrata l’inesistenza scientifica del concetto di razza applicato agli uomini, permane un razzismo paradossale, un razzismo senza razze, rivolto contro i poveri, resi categoria, destituiti di umanità, possibili da sfruttare e da annientare. Torna attuale il problema della schiavitù, che siamo abituati a collocare nel mondo antico e negli Stati sudisti del cotone, mentre, nella nostra storia recente, un paese colto e tecnologicamente avanzato ha progettato la sottomissione di tutti gli altri popoli europei: una parte di essi sarebbe stata soppressa, gli altri sarebbero stati fatti schiavi, così da garantire la supremazia e lo «spazio vitale» del popolo germanico.

La Lista L’Altra Europa con Tsipras ha posto come punto qualificante del suo programma la lotta alla xenofobia e al razzismo, e la ricerca di politiche fondate sui principi di giustizia, accoglienza, solidarietà e inclusione sociale. Perché, come ripetono le Madri di Plaza de Mayo, «non si vince alla lotteria, d’essere poveri». Si tratta di politiche decise dagli uomini, e il solo modo che abbiamo per cambiarle è abbracciare l’orizzonte continentale, costruendo un’Europa che non sia una giustificazione metafisica della sottomissione, un moloch che richiede il sacrificio dei deboli, ma una garanzia di democrazia e di inclusione. È necessario tornare alle origini del progetto europeo, alle motivazioni profonde della sua costituzione, prima di essere sommersi da un nuovo fascismo.

La sola comunità possibile, scriveva Georges Bataille, è quella di coloro che non hanno comunità, ed è a loro (a noi) che dobbiamo tentare con tutte le nostre forze di dare rappresentanza.

*La versione integrale di questo testo verrà pubblicata nel prossimo numero della rivista Inchiesta

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