La «potenza di fuoco» lavora al minimo
Nuova Finanza pubblica La rubrica a cura di Nuova Finanza pubblica
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Il 1 maggio 2021 è la seconda ricorrenza della Festa del Lavoro dopo lo scoppio della crisi covid.
La settimana che lo precede è stata quasi totalmente occupata dal dibattito sul Recovery Plan presentato da Draghi alle camere.
È rimasto quindi un po’ in ombra l’arrivo di dati aggiornati di EUROSTAT che ci aiutano a far luce su dove sta andando il mondo del lavoro nelle nostre società. Solo in alcuni sparuti articoli è emerso che le stime del pil nella componente stipendi e salari vede l’Italia maglia nera : rispetto al 2019 perde 39,2 mld € (da 525 a 486 mld) a fronte di Germania (da 1520 a 1507 mld €: -13), Francia (da 930 a 898: -32), Spagna (da 440 a 412: -28). Insomma le retribuzioni nel nostro paese calano di -7,4% a fronte di Francia (-3,4%), Spagna (-6,4%) e Germania (-0,8%, quasi inalterate).
Confrontiamo tali dati con la caduta del pil degli stessi paesi nel 2020, calcolata nel World Outlook del Fondo monetario (dati aprile 2021): Germania -4,9%, Francia -8,2%, Italia -8,9%, Spagna -11%. Come si vede, il nostro paese vede una caduta salariale non solo più forte ma quasi proporzionale al prodotto interno lordo – indice eloquente su chi sta pagando la crisi.
L’austerità di bilancio non è risultata particolarmente popolare nel 2020 presso i governi, che invece di accanirsi con tagli alla spesa pubblica in uno sforzo assurdo e autolesionistico come nel 2009-13, tremebondi per il terrificante crollo del pil, si sono sbrigati ad usare l’erario pubblico con vistosa prodigalità per tenere a galla lavoratori e (soprattutto) imprese.
Le economie avanzate hanno dispensato il 16,4% del proprio pil per spese aggiuntive, aumentando un po’ dappertutto il temuto debito pubblico. Lo stesso Mario Draghi nel famoso editoriale di aprile 2020 aveva detto che “Il giusto ruolo dello stato sta nel mettere in campo il suo bilancio per proteggere i cittadini e l’economia La questione chiave non è se, bensì come lo stato debba utilizzare al meglio il suo bilancio”.
L’Italia ha speso in forme di stimolo economico circa l’8,5% del pil., corrispondente secondo l’aggiornato e occhiuto database del FMI a 160 mld $. Una cifra inferiore a Germania, UK e Francia, tanto in termini assoluti che relativi. Ma il belpaese scala le classifiche internazionali su di un altro parametro: le garanzie al credito.
Con uno spettacolare 35% sul pil (ben 665 mld $): più della Germania che si difende con un 27% e del Giappone con un vigoroso 28% (ovviamente in termini assoluti, essendo economie più grandi, ci surclassano di gran lunga). Ma si tratta di una tipologia di sostegno che non implica dei pagamenti effettivi – in ogni caso non immediati.
La finalità è di stimolare le banche a non interrompere il credito presso le imprese – tentazione assai forte, in un contesto di crisi tanto acuta che c’è da temere che esse diventino insolventi – per cui lo Stato si fa garante delle eventuali perdite in una componente ragguardevole.
La “potenza di fuoco” – così la designò orgogliosamente il presidente Conte – della cifra messa a disposizione se tutto va bene non deve sparare un colpo: solo se i beneficiari saranno insolventi il Tesoro si rassegnerà a rifondere la banca. E dopo aver espletato tutti i necessari passaggi burocratici.
La situazione attuale che si prolunga del concentrarsi su istituti finanziari e imprese è il risultato di un aumento costante della precarizzazione lavorativa sin dai primi anni Novanta, avendo visto una disoccupazione di lungo periodo di fasce giovanili, aggravata nel 2020 da una dinamica crescente di calo delle ore lavorate (-7,5%) e di una restrizione di -6,56% dei consumi. Anche il maestoso Wage Report dell’ILO certificava il trend declinante dei salari italiani fra 2008-18, discutendo sul salario minimo.
Elemento che era penetrato anche nel famoso Recovery Plan ma quando Draghi l’ha presentato – sorpresa! – era sparito. Immaginiamo la disperazione di Confindustria.
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