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La politica nei giardini di Epicuro

Divano La rubrica settimanale a cura di Alberto Olivetti

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 10 febbraio 2017

Dobbiamo a Sir William Temple, diplomatico inglese che svolse mansioni di grande importanza nella politica a contrasto della Francia di Luigi XIV, durante il lunghissimo regno di Carlo II Stuart, un piccolo trattato: Upon the Gardens of Epicurus or of the Gardening in the Year 1685. Mario Manlio Rossi lo rese in italiano nel 1949 con il titolo I giardini di Epicuro ovvero sull’orticultura.

Nel 1685, Sir William si avviava ai sessant’anni e aveva lasciato da quattro la politica attiva ritirandosi in campagna, a Sheen prima, non lontano da Londra, e poi a Moor Park, nel Surrey, dove, tra l’altro, godeva della compagnia di un giovane segretario, Jonathan Swift. Il diplomatico, nell’agio della sua residenza, nel conforto di una magnifica biblioteca, si diletta di letteratura. Non mancano i critici, anche malevoli, dei suoi scritti. The Battle of the Books di Swift è una difesa di Ancient and Modern Learning di Temple. Come diplomatico, secondo Rossi, Temple «non sognava politiche d’avventura, colpi gobbi. Per lui le trattative e le discussioni erano conversazioni pacate tra signori benestanti e non fra nobili iracondi (…) tutte le questioni venivano abbassate di tono, portate sul piano del ragionevole e del bonario» a fronte di «un mondo clamoroso per il quale Sir William sentì sempre un leggero disgusto».

I giardini di Epicuro si apre con questa considerazione: «La stessa facoltà della ragione, che dà all’uomo una notevole superiorità privilegiata su tutti gli altri esseri della creazione, produce però le deficienze più gravi della natura umana, rendendo questa soggetta a turbamenti, a miserie o almeno a inquietudini maggiori di quelle subite da altre creature. È essa che genera in noi tanti diversi sentimenti, e quindi tanti bisogni e desideri che nessun altro essere prova, e questi, acuiti da quella irrequietezza di pensiero che è innata in tanti uomini, suscita incessanti progetti e sforzi senza fine».

Temple si volge alle opere dei filosofi e dei poeti antichi («Lucrezio, Virgilio e Orazio meritano, a mio avviso, di venir onorati come i più grandi filosofi non meno che i poeti supremi della loro nazione e della loro epoca»). Gli insegnano come la felicità sia lo scopo dell’uomo e lo invitano a riflettere in che consista la felicità: se nella virtù (gli Stoici) o nel piacere (gli Epicurei).

Per quanto possa giudicare, l’accomodante diplomatico argomenta: «i più ragionevoli degli Stoici ritenevano che il piacere della virtù sia la felicità più grande, e i migliori tra gli Epicurei facevano consistere il piacere più grande nella virtù»; così che gli pare di poter concludere: «non si vede bene dove sia la differenza tra le due affermazioni».

Su un punto, in ogni caso, sarebbero d’accordo le antiche scuole filosofiche: «un uomo saggio deve star lontano dalla politica». Tale il precetto di Pitagora che consiglia di astenersi dalle fave, le fave «con le quali si facevano le pubbliche votazioni ad Atene». La politica pare a Temple «più contraria d’ogni altra cosa alla tranquillità di mente che gli antichi ritenevano e insegnavano essere la sola vera felicità dell’uomo».

Dunque, il saggio Temple, felice nell’orto, anticipa l’affermazione da Voltaire consegnata a Candide: «bisogna coltivare il nostro giardino». Eppure quella del giardino, ossia d’un’ordinata e regolare coltivazione, è stata, non di meno, assunta come immagine adeguata a significare anche saggezza politica e virtuoso esercizio del governo. Quando si dice d’una crescita armonica delle parti e d’un equilibrio ben temperato dei benefici e dei fini, da perseguire con la giusta misura e con la costante cura.

Cade bene in proposito un passo del Cato Maior de senectute dove, rifacendosi a un racconto di Senofonte, Cicerone ricorda come Ciro mostrasse allo spartano Lisandro un terreno recinto, tutto diligentemente piantato. All’ammirato ospite greco il sovrano persiano, paludato di porpora «con molto oro e molte gemme», dichiara di aver egli medesimo «dato misura ad ogni cosa: mio è il disegno ordinato dei filari a scacchiera, mia la mano che attende alla coltivazione». E Lisandro lo riconosce felice perché in lui vede congiunte fortuna personale e virtù politica.

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