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La politica floreale di Kapwani Kiwanga

La politica floreale di Kapwani KiwangaKapwani Kiwanga da «Flowers for Africa», collezione Nomas Foundation, Roma, foto di Rachel Topham

Cristalli liquidi «Flowers for Africa», un work in progress

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 4 dicembre 2022

Nel 2013 l’artista Kapwani Kiwanga è in residenza a Dakar, dove scartabella degli archivi fotografici sull’indipendenza di diversi Stati africani. Non intende adottare la logica del monumento scultoreo, ovvero una materia geologica che perennizza i traumi nazionali. Familiarizzandosi con gli eventi diplomatici legati al passaggio di potere, alla creazione di un nuovo Stato sovrano e all’indipendenza dei paesi africani dal loro protettorato, lo sguardo di Kiwanga va ai tavoli delle negoziazioni e ai palchi su cui sono pronunciate le allocuzioni ufficiali. In particolare, a colpirla è un dettaglio futile che, per quanto sgargiante, passa perlopiù inosservato: i fiori, testimoni silenti di tali eventi geopolitici. Un dettaglio marginale ma non affatto secondario se pensiamo che l’uso dei fiori in Africa è piuttosto limitato, come ha dimostrato Jack Goody ne La cultura dei fiori, un librone di seicento pagine tradotto da Einaudi nel 1992 e oggi ingiustamente dimenticato. Così nasce Flowers for Africa, un progetto tuttora in corso che segue lo stesso protocollo: a un fiorista locale, ogni volta diverso, l’artista fornisce una fotografia proveniente dagli archivi e non destinata a essere esposta. Si tratta di documenti per lo più in bianco e nero, dove non è sempre facile identificare il nome dei fiori. La ricostruzione del bouquet, per quanto accurata, è così il risultato di un’interpretazione. Siamo davanti a una riattivazione della storia piuttosto che a una semplice ricostruzione del passato. È possibile mettere in gioco i rapporti di potere e le sue asimmetrie, che interessano Kiwanga, restituendo il lungo processo di liberazione dei Paesi africani dal giogo colonialista? È possibile trattare un tema complesso come la decolonizzazione attraverso un elemento così decorativo e infimo? Quali sono le potenzialità e i limiti di una strategia estetica e politica che passa per il vegetale? Kiwanga installa le sculture floreali su dei piedistalli bianchi da museo, di diversa altezza e dimensione.

In assenza d’ogni volontà di tenerli freschi e di dare ai fiori quella cura di cui hanno bisogno, finiscono per avere lo stesso destino e aspetto di una vestigia architettonica. Appassiscono e avvizziscono sotto lo sguardo degli spettatori: più che delle nature morte, ricordano delle vanità. Il loro sfiorire – e il loro compostaggio una volta la mostra terminata – sono l’antitesi di quanto offre la scultura o la fotografia: quando la storia diventa organica deperisce molto più velocemente che quando è trasmessa attraverso la pietra o la chimica. A mostrarsi è la fragilità dei processi storici e della costituzione degli Stati africani ma anche dell’entusiasmo che si accompagna alla ratifica di questi documenti d’indipendenza, quando nella vita quotidiana subentrano difficoltà di ordine economico, politico e sociale. Canadese trasferitasi a Parigi, Kiwanga espone Flowers for Africa al Centre Pompidou nel 2020, ottenendo, con questa installazione di tredici composizioni floreali, il premio Marcel Duchamp. Laureatasi in antropologia e religione comparata alla McGill University di Montréal dopo studi di letteratura, integra la dimensione della ricerca alla sua pratica artistica, che si è diretta più recentemente verso l’afrofuturismo. Un arco di foglie d’eucalipto per la Repubblica del Ruanda nel 1961; gladioli bianchi e rossi per l’indipendenza dell’Algeria dalla Francia nel 1962, cui seguono Nigeria, Uganda, Tanzania, Mozambico…: così Kiwanga dà corpo e vita, colore e odore alla memoria culturale e ai processi di emancipazione di molti paesi africani.

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