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La poetica dei voyeristici oblò

La poetica dei voyeristici oblò"Erba" – Francesca Della Toffola (courtesy of the Artist)

Fotografia Intervista a Francesca Della Toffola Vincitrice della XXXIV edizione del Premio Hemingway nella sezione fotografia

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 21 luglio 2018
Manuela De LeonardisLIGNANO SABBIADORO (UDINE)

Lignano Sabbiadoro, 22 giugno 2018. Immagini stratificate che introducono al rapporto fortissimo tra essere umano e natura. Nella scrittura di luce di Francesca Della Toffola (Montebelluna 1973, vive e lavora a Trevignano, Treviso) la cartografia di sentimenti è messa a nudo attraverso la formula dell’autoritratto. La fotografa è autrice del libro Accerchiati incanti (Punto Marte, 2018) con cui è stata premiata al XXXIV Premio Hemingway, dedicato quest’anno a Pierluigi Cappello. A Lignano Sabbiadoro, sul palco del Cinecity, con Della Toffola sono saliti la scrittrice Annie Ernaux, alla quale è stato assegnato il premio per la Letteratura, il neuroscienziato Antonio Damasio per l’Avventura del pensiero e la giornalista Lilli Gruber come Testimone del nostro tempo. Il premio, promosso dal Comune di Lignano (con il sostegno degli Assessorati alla Cultura e alle Attività Produttive della Regione Friuli Venezia Giulia) e realizzato con la Fondazione Pordenonelegge.it, dal 2014 – grazie anche al coinvolgimento dello storico e critico della fotografia Italo Zannier – ha riconosciuto al linguaggio della fotografia il suo potere evocativo e narrativo, dedicandogli la sezione specifica che ha visto già protagonisti Guido Guidi, Luca Campigotto, George Tatge e Nino Migliori. Parlando della declinazione poetica dei “voyeuristici oblò” di Francesca Della Toffola, Zannier, va a ritroso nel tempo proponendo una suggestione tratta dalla letteratura vittoriana, il diario di Julia Margareth Cameron (prozia di Virginia Woolf, che a lei nel 1926 dedicò Victorian Photographs of Famous Men and Fair Women con introduzione di Roger Fry), tra i maggiori esponenti della fotografia pittorialista. “Era il 1860, quando Julia, recandosi dall’amico poeta Thomas Carlyle per fargli il ritratto, fu per un attimo in ansia, così scrive nel suo diario, nel timore di non riuscire a cogliere nell’immagine, anche la sua “anima” e non soltanto il suo volto, per rivelare il pensiero di poeta.” – scrive lo storico – “Ecco, è proprio in quell’ansia, in quella intenzione lirica, la natura segreta della fotografia, che può raggiugere così il suo scopo recondito, di esprimere i “pensieri” e, se possibile, la poesia, non solo l’epidermide.”

Tra gli artisti che ricorrono all’autorappresentazione, c’è la ricerca di sé in chiave psicoanalitica ma anche la componente sociale e politica. Qual è la tua declinazione personale?

L’interesse per l’autoritratto è iniziato da subito, osservando la mia ombra. E’ come guardare il proprio riflesso nello specchio o, per Narciso, sull’acqua. Dalla mia ombra sono passata ai piedi, alle gambe, ai capelli. Solo successivamente la figura intera è entrata nell’immagine, evitando però il viso. Mi coinvolgeva molto il vedermi dentro il luogo che fotografavo, sia interno che esterno. Questo dava la testimonianza del mio esserci e delle sensazioni che avevo vissuto: l’odore, il freddo, il caldo. Mi resi conto che era importante anche il rivedermi, perché includeva la sorpresa. Nell’inserirmi in un certo luogo può nascere una nuova riflessione. Nasce anche un’altra me. Il risultato – l’immagine finale – è un terzo momento che è come una magia.

La solitudine è una condizione costante che attraversa la tua visione…

Sì, sono lì con me stessa e con la mia intimità. Quando fotografo sono sempre sola, perché ho bisogno di immedesimarmi in quel luogo, lasciare che il mio corpo si adatti. Devo diventare un tutt’uno con l’ambiente circostante: un oggetto, una foglia, un albero, un ciuffo d’erba.

Lo scatto traduce la dilatazione temporale del momento sospeso…

E’ un andare fuori dal tempo presente. Non c’è più né passato, né futuro.

La natura è la principale fonte d’ispirazione, ci sono anche riferimenti alla poesia o alla letteratura?

E’ inevitabile che i miei studi e le mie letture – mi sono laureata in lettere all’Università Ca’ Foscari a Venezia, studiando la storia della fotografia con Italo Zannier – riaffiorino, anche in maniera inconsapevole. Mi hanno influenzato molto Schopenhauer con il mondo e la rappresentazione, il velo di Maya e Leopardi con il concetto di natura benevola e natura matrigna. C’è chi che ha messo in relazione il mio lavoro con la pittura dei Preraffaelliti: non ci avevo pensato, ma rientrano comunque nei miei studi. Quelle figure femminili dai capelli rossi e la pelle molto bianca, del resto, hanno i miei stessi colori.

La tua vocazione narrativa si esprime attraverso la sequenza…

Un’immagine non mi basta più, devono essercene almeno due. Possono essere accostate tra loro, come in The black lines series, oppure sovrapposte come in Accerchiati incanti. C’è sempre una fotografia in cui ci sono e un’altra in cui sono assente. Immagini che sono scattate nello stesso luogo. Parto sempre dal reale, faccio fatica a lavorare con la fantasia. Mi fermo nel luogo che mi piace, metto il cavalletto, faccio un primo scatto allo spazio vuoto e dopo mi metto dentro l’immagine.

Sono luoghi che conosci, dove ti senti protetta?

Per la maggior parte sono luoghi vicini: il mio giardino, la campagna intono a casa, i giardini delle mie amiche. Non perché abbia paura di per sé, ma perché l’arrivo di qualcuno potrebbe spezzare quel momento di solitudine e intimità.

In questo secondo libro hai lavorato in digitale, mentre in The black lines series (2009), che raccoglie serie diverse dal 2001 al 2008, hai fotografato in pellicola anche all’interno di spazi architettonici che recano le tracce del tempo. Affiorano suggestioni della ricerca di Francesca Woodman?

Il primo libro di fotografia che acquistai su una bancarella era proprio di Francesca Woodman, che all’epoca non sapevo chi fosse. Sicuramente mi ha influenzata. L’altro libro che comprai, dopo pochi mesi, è Niente di antico sotto il sole di Luigi Ghirri che è stato molto importante per me, sia per le sue riflessioni che per l’uso del colore, molto diverso da quello di Fontana. In The black lines series, dove la linea nera separa un fotogramma dall’altro, sono partita dall’ombra. Tagliavo un pezzo di un’immagine e la accostavo all’altra. C’è la serie delle ombre, delle piscine, delle stanze dove avevo abitato nell’infanzia e nell’adolescenze e anche quella di Villa Onigo – Pelle a pelle – dove ho cercato di diventare un tutt’uno con gli antichi affreschi, le crepe del muro, le forme geometriche dei camini che servivano per scaldare i bachi da seta.

In Accerchiati incanti, in cui l’enigmaticità delle immagini è accentuata dalla loro sovrapposizione e dall’inserimento all’interno della forma circolare, s’intravede la presenza del cavalletto, attraverso la proiezione della sua ombra. Potrebbe sembrare un errore, invece è un punto di forza?

Ci sono foto in cui si vede anche lo scatto flessibile e il filo. Una casualità che rafforza la mia presenza all’interno dell’immagine. Sembra quasi il mio cordone ombelicale!

Un’ultima riflessione sulla natura che viene “catalogata” con uno sguardo molto attento, come se fosse un erbolario…

In effetti ci sono i fiori di pesco, le ortensie, l’edera… mi piace raccogliere le piante e conoscere a che specie appartengano. Ma mi fai riflettere su qualcosa a cui non avevo mai pensato. Ho un ricordo bellissimo, tra gli altri brutti, della mia maestra quando, alle elementari, ci faceva raccogliere le foglie, incollarle sui fogli e scrivere il loro nome. Un’immagine sedimentata a cui tengo molto.

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