«La città ha assunto le dimensioni di una regione, di un mondo. La scena è l’autostrada». Così Fortini aveva da tempo constatato la fine della città turbinosa e ammaliante di Baudelaire e di Benjamin. E da qui si può partire per leggere l’ultimo libro di Sandro Abruzzese che ci conduce nel cuore di tenebra di una provincia italiana: in quel triangolo immaginario fra Ferrara, Ravenna e Chioggia che si avvinghia intorno a un grappolo di terre strappate al fango e al mare; la nostra piccola Olanda.

IL LIBRO si intitola Niente da vedere. Cronache dal Polesine e altri spazi sconfinati (Rubbettino, pp. 173, euro 16, prefazione di Angelo Ferracuti, con un racconto fotografico di Marco Belli) ma invece che sull’autostrada siamo «sulla provinciale». Su quel filo d’asfalto che si sottrae agli informi agglomerati urbani dove, secondo la «teoria degli imbuti» illustrata dall’autore, tutti si affollano e convergono. E dove si genera peraltro un irredimibile provincialismo, inteso come proiezione di sé da parte delle città. Gli spazi riottosi a queste ingiunzioni diventano dunque «colonie e località senza più anima e vita». Da questa lettura del reale scaturisce la necessità di mettere al centro dello sguardo la periferia. Un piccolo atto di insubordinazione rispetto «all’odierno nomos della terra».

La poetica dei margini e della precarietà, dell’estraneità e della lontananza, si salda dunque al genius loci di questa bassa padana, segnata dalla fragile instabilità del mare. Ciò avviene nei termini simbolici di una lotta secolare, che vede opporsi il libero regno dell’acqua a quello della terra, destinato al contrario a divenire proprietà di qualcuno ben capace di sottoporlo ad una sistematica «estrazione di ricchezza» foriera d’ingiustizie.

Quella di Abruzzese si presenta allora come una scrittura delle conseguenze. Sentiamo un suo passo rivelatore, il suo ragionamento verticale: «Ogni punto, ogni fiume o canale, ogni bacino idrico o bosco divelto, tutto ciò che accade a monte, si riversa in questi luoghi ultimi della penisola, destinati da sempre a seguirne le conseguenze». È davvero un’altra Italia quella scandagliata dallo scrittore, stretta com’è nella duplice morsa degli alienanti ingorghi metropolitani e delle chiusure egoistiche dei paesi che si elevano in alto.

LA PIANURA SCONFINATA e aperta, con le sue molteplici e tolstoiane vie di fuga, dialoga con l’osservatore, discute con l’intero mondo, mentre all’orizzonte si profilano minacciosi altri e diversi «imbuti»: i borghi di collina e di montagna, impenetrabili e angusti. Forse un riverbero metaforico degli arcigni luoghi d’origine da cui l’autore è emigrato: l’Irpinia ferita a morte dal terremoto del 1980. Il percorso biografico di certi uomini così attenti alle «conseguenze» di migrazioni e sradicamenti può apparire dunque molto simile a quello dei detriti alluvionali descritti poco sopra. Ma di tale inesorabile percorso possiamo solo essere «testimoni». È proprio nel riflesso di questa tragica perdita dei luoghi e dell’incapacità moderna di vivere dentro il mondo, che si giustifica la postura metodica dello scrittore come osservatore, assunta sotto gli auspici «fenomenologici» di Wittgenstein.

È qui che trova senso anche la forma interna, più segreta del libro, come lenta, silenziosa voragine che trasforma di nuovo la terra in fango. Una sorta di lungo ed estenuante «naufragio con spettatore». Nel poco o tanto tempo che gli è concesso, mentre il terreno frana sotto i piedi di tutti, chi parla riesce a descrivere con occhio acuminato il mondo che accade.

AD ESEMPIO, l’estremo degrado e la lacerazione di un certo tessuto sociale ed economico, colto in uno spicchio d’Italia che ben incarna cambiamenti storici vertiginosi, dal passato boom economico all’attuale «punto d’intersezione fra capitale umano orientale e riciclaggio criminale». Oppure il nesso che si forma nella mente fra il grande vuoto della pianura e quello visivo ed emozionale imposto dalle recenti quarantene. E qui davvero sembra che il viaggio debba in tutti i sensi finire: in queste false trasparenze, che ricordano i non luoghi pittorici di Hopper; davanti a certe vetrine bassaniane, oltre le quali tutto deve essere visto, mentre di fatto niente è più possibile vedere.