I Sonetti sono parte integrante, e in qualche misura rivelatrice, della scrittura di William Shakespeare. Quelle 154 brevi composizioni (14 versi ognuna, 12 endecasillabi e due in rima baciata) sono densamente avvolte nel mistero: poesie d’amore e di pensiero, dedicate per lo più a «un bel giovane», che quando furono pubblicate da un altro londinese intraprendente, pare abbiano spinto il grande autore a ritirarsi definitivamente nella natìa Stratford. D’altra parte di quelle composizioni di perfetta forma, e di tanto eloquio amoroso, non si sa chi sia il destinatario, né la tosta signora che compare verso la fine. Qualcuno trova assonanze con espressioni e situazioni delle sue commedie o di qualche sua tragedia, ma tutto si ferma alla supposizione.
Quello che è certo è la «teatralità» di quelle parole, nel senso della potenza evocativa che ne scaturisce. Pochi anni fa se ne vide anche in Italia una cospicua versione teatrale ad opera del Berliner Ensemble, col nitore e l’eleganza della regia di Bob Wilson. Dei tableaux vivants di altissima e rarefatta classe teatrale, per quanto raggelata.

 

 

Totalmente all’opposto è la versione che ne propone ora sui nostri palcoscenici un attore, da solo, capace di evocarne segreti e secrezioni, calore e sfrontatezza, ma soprattutto la grande poesia. È Lino Musella, figura ormai di primo piano sulla scena italiana, che con L’ammore nun è ammore, ne ha offerto i brividi nella sala piccola del Bellini, e continuerà a portarlo in giro assieme al suo interlocutore musicale Marco Vidino, mago di cordofoni e percussioni.

 

 

Come facilmente si evince dal titolo, è proprio nella lingua di Napoli che risuonano ora i versi shakespeariani, «traditi e tradotti» (come recita la copertina del libro pubblicato dalle edizioni Ad est dell’equatore) con cura e sentimento da Dario Iacobelli, performer e scrittore multiforme, scomparso ancora giovane quattro anni fa. E più noto al pubblico per essere autore dei testi di molte canzoni di 99 Posse e Alma Megretta, Peppe Barra e Nino D’Angelo. Della raccolta dei Sonetti shakespeariani, Iacobelli ne ha con molto acume tradotti trenta, che pure aprono paesaggi poliedrici e assoluti, come le pulsioni che ne sono all’origine, e che solo la perfezione della forma, in napoletano come in inglese, rende trasmettibili nella loro rovente sostanza.

 

 

Lino Musella si è appropriato di questo giacimento di sensualità e trasporto, e con pochi oggetti, ma tutti significativi, conduce lo spettatore in quel percorso. Di cui si può perdere per brevi tratti il significato letterale, ma non si riesce a schivare la mira e il combustibile verbale al calor bianco che vi è contenuto.

 

 

Con una parrucca, delle corde, una pila,una giacchetta buttata sulla canotta, poveri oggetti di scena e di abbigliamento, l’attore intreccia un tessuto che morbidamente delimita l’universo ardente che evoca. Come quando interpella un singolo spettatore, o gli fa trattenere il fiato centellinando la focosa sensualità shakespeariana appeso a un muretto precario sulle pareti del teatro. Strappando in qualche modo la gorgiera al Bardo, ma rendendo lui protagonista dell’amore, della ragione e dei sensi che animano in modo ineguagliato i suoi grandi testi teatrali.