Cultura

La poesia dell’errore

La poesia dell’errorePier Paolo Pasolini – Foto di Sandro Becchetti

Narrazioni A bordo del treno regionale veloce per raggiungere il Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa della Delizia, dove fino all'11 ottobre sono esposti gli scatti realizzati dal fotografo romano Sandro Becchetti. «Scarti» e «prove» compresi

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 15 agosto 2020

Due paginette di Empirismo Eretico sono un piccolo testamento nel quale Pier Paolo Pasolini lascia una sua ossessione letteraria e umana, quasi pescata dall’inconscio.
«Se attraverso il linguaggio cinematografico io voglio esprimere un facchino, prendo un facchino vero e lo riproduco: corpo e voce» cioè «con la sua faccia, la sua carne e la lingua con cui lui si esprime». Moravia non è d’accordo e sostiene che quell’attore può anche essere un facchino vero, ma non deve parlare, altrimenti è cinema naturalistico. Bernardo Bertolucci gli risponde che bisogna prendere la bocca del facchino e metterci dentro «parole filosofiche» come fa il suo Godard. Così «finisce la discussione perché nessuno potrà mai togliere dalla testa di Moravia che ‘il cinema sia immagine’» e «nessuno potrà mai togliere dalla testa di Bertolucci che i facchini devono parlare come filosofi».

E QUI PASOLINI si chiede per quale motivo un facchino vero non possa stare in silenzio o parlare come un filosofo pur continuando a essere un facchino della realtà. Si chiede il perché di «tanta paura del naturalismo». Questo timore non «nasconderà, per caso, la paura della realtà?». Per il poeta quel facchino del cinema deve essere un facchino morto e, dunque, le parole che pronuncia saranno quelle che «si iscrivono nella memoria come epigrafi». Parole reali, ma risultato di una sintesi. Non bisogna averne paura.
Con questo discorso in testa scendo da un regionale veloce e mi dirigo verso il Centro Studi Pier Paolo Pasolini. È uno dei tanti fabbricati di Casarsa della Delizia. Me lo sono cercato sulla mappa. M’ero figurato che stesse più lontano dalla stazione e invece me lo trovo davanti dopo una manciata di minuti. Poco più in là, forse un quarto d’ora di strada, c’è il cimitero. Una signora chiacchierona mi avverte sorridendo «ci troverà una strage di Colussi». Perché come in tutti i paesi c’è un cognome che accomuna tanti abitanti. I vivi e i morti. È lo stesso di Susanna, la madre del poeta.

E STA PROPRIO in casa Colussi il Centro Studi che custodisce un pezzo importante della sua memoria, soprattutto quella che riguarda i primi anni. Le foto di famiglia, i dipinti friulani, i manifesti politici del 1948-49 e una fitta corrispondenza epistolare di Pier Paolo con gli amici e i parenti. Ma prima di entrare in quelle stanze, i due curatori della mostra, mi portano a vedere il camposanto. Sono Valentina Gregori e Piero Colussi. Anche lui. La signora chiacchierona m’ha detto dell’alloro che è stato piantato sulla tomba del poeta. Cioè la sua e quella della madre.

TRA DUE PIETRE quadrate c’è il piccolo albero, simbolo della poesia, che messo lì a fare ombra alle lapidi scarne ricorda soprattutto le piante che stanno in tanti orti e giardini. Quelle che avvicini senza tanto lirismo per strappare qualche foglia da mettere nel sugo. Girando un po’ si vedono gli altri affetti, un po’ cordiali e un po’ dolorosi. Oltre alla mamma ci sono le zie, ma anche il padre Carlo, che Pier Paolo e Susanna, fuggendo a Roma, lasciarono «accanto a una stufetta di poveri, col suo vecchio pastrano militare e le sue orrende furie di malato di cirrosi». Il padre che poi li raggiungerà nella casa di Ponte Mammolo e proverà a riavvicinarsi. Così per un po’ gli fece da segretario e si abbonò anche all’Eco della stampa. E poi una lapide tra due dipinti sulla quale si trovano incisi alcuni nomi di partigiani. Tra loro quello di Guido che, scrive il fratello, «morì in un modo che non mi regge il cuore di raccontare». Ucciso in un frammento di guerra fratricida tra partigiani in lotta per il confine che divise i destini della Jugoslavia e dell’Italia.
Forse l’album di famiglia comincia proprio tra quelle tombe. E non sembra inadatto trovare il poeta friulano in quel luogo in fondo al mondo anziché a Parigi tra i loculi famosi o a Roma accanto alle ceneri di Gramsci. Anche io prendo tre foglie di quell’alberetto e le metto tra le pagine di un libro che, senza farlo apposta, racconta di un altro ragazzo friulano morto giovane. Uno studente di Fiumicello torturato in Egitto.

POI TORNIAMO verso l’abitato e finalmente siamo pronti per vedere la mostra con le foto di Sandro Becchetti, fotografo romano morto sette anni fa.
Quasi due anni di lavoro per costruire la mostra che resterà a Casarsa fino all’11 ottobre. «Inizialmente abbiamo mostrato al Centro Studi la selezione ufficiale fatta da Sandro», racconta Valentina che conosce bene il lavoro di Becchetti e si muove da tempo tra le foto del suo archivio labirintico dal quale ci aspettiamo che escano presto tanti volti e strade, memorie e visioni. «Poi ci hanno chiesto di vedere anche altre foto, quelle che hanno preceduto lo scatto definitivo. Per rintracciare Pasolini, ma anche per capire come Sandro cercava l’immagine». E come la cercava? «Scattava velocemente», dice. Pasolini lo accolse con un’iniziale freddezza. «Due occhi gelidi, lo sguardo tagliente come una coltellata», racconta il fotografo. E tra le stanze della mostra seguiamo le tracce dei suoi movimenti. Anche quelli sbagliati.

TRE FOTO IN FILA piene di piccole imprecisioni ci raccontano questa ricerca. Poi altre due prima di arrivare a una composizione equilibrata, incisiva. Ancora il dettaglio delle mani, uno sguardo che ancora non si trova. Poi di nuovo la traccia di una folgorazione. Sì, nella mostra di Casarsa ci sono le foto che raccontano la ricognizione prima del risultato. E un po’ ci sembra di entrare nella testa di Becchetti, pensare i suoi pensieri.
Poi compare Le Ceneri di Gramsci. Lo sguardo è basso per i primi scatti come nei bozzetti preparatori di un pittore. Gli occhi di Pasolini si muovono e guardano nell’obiettivo. Ricorda Gianna Bellavia, moglie del fotografo e archivio vivente dei suoi scatti, che proprio il marito chiese al poeta di tenerlo tra le due mani. Un rettangolo grigio sulla giacca nera, in una posizione che ricorda certe figure di santi con le sacre scritture, icone russe che ci guardano attraversando la sottile parete del quadro e raccontano più il silenzio che la preghiera, il vuoto rilucente attorno ai corpi come se questi stessero in quel luogo solo per ricordarci quanto siano prossimi alla scomparsa.
E davvero sembra che in uno scatto Becchetti e Pasolini si siano incontrati cercando di esorcizzare la paura della realtà descritta in Empirismo Eretico. Nessuno dei due artisti s’è tirato indietro davanti alla paura del naturalismo.

TUTT’E DUE, a modo proprio, si sono messi in un angolo a guardare il mondo con un piede dentro e uno fuori. Inevitabilmente. Perché non è possibile guardare la vita senza parteciparvi, né essere coinvolti senza immaginarsi come personaggi secondari di un mistero complessivo. O di un inganno. Lo scrive Becchetti quando parla del suo «privilegio di stare al margine» che gli ha concesso di diventare «una persona migliore, perché migliore era il mondo che i protagonisti delle mie foto si auguravano e per il quale si battevano».
Esco da casa Colussi. Il regionale veloce delle 16:31 è in ritardo di dieci minuti.
Prendo un caffè al bar della stazione e sfoglio il catalogo. La foto con quel libro famoso di poesie è sulla copertina. In quel riquadro c’è un terzo protagonista che ha riempito di senso i fantasmi del Novecento. Ed ecco che si compone l’icona laica.
Gramsci, Becchetti e Pasolini. Le ceneri di tre poeti.

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