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La pinacoteca regionale dell’abate Luigi Lanzi

La pinacoteca regionale dell’abate Luigi LanziLuigi Sabatelli, Ritratto di Luigi Lanzi, disegno, 1806

Nei «Millenni» Einaudi «Storia pittorica dell’Italia», nuova edizione. Il conoscitore illuminista, apprezzato da Schlosser e Longhi, superò il modello biografico vasariano

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 11 dicembre 2022

«Il FINE di questa vostra fatica non è di scrivere la vita de pittori, né di chi furono figliuoli, né quello che e’ feciono d’ationi ordinarie; ma solo per le OPERE loro di pittori, scultori, architetti; che altrimenti poco importa a noi sapere la vita di Baccio d’Agnolo o del Puntormo». Così, nell’agosto del 1564, Borghini incitava Vasari, allora al lavoro sulla seconda edizione delle Vite (1568), a superare, trattando d’arte, i limiti del genere biografico, che proprio l’Aretino aveva per primo consacrato con la princeps del suo capolavoro (1550). È ben noto, però, come tanti dei maggiori protagonisti della letteratura artistica di età moderna, da Bellori a Baldinucci, da Passeri a Pascoli, avrebbero continuato a servirsi di quel genere, e questo soprattutto quando veniva adottato il punto di vista particolare di una singola scuola pittorica, dalla bolognese (Malvasia) alla veneziana (Ridolfi), dalla genovese (Soprani) alla napoletana (De Dominici). E quindi si sarebbe dovuto attendere Luigi Lanzi e la sua Storia pittorica della Italia affinché si compisse definitivamente quella svolta epocale, auspicata già da Borghini, le cui parole sembrano riecheggiare in quelle dell’introduzione dello stesso Lanzi alla prima edizione del suo capolavoro (1792): il suo obiettivo, dichiarato, era di trattare della maniera dei pittori, non delle «lor baje, i loro amori, le loro stranezze». D’altronde la strada, in questo senso, era stata preparata da Winckelmann, che per la sua Storia dell’arte nell’antichità (1763), trattando soprattutto materiale anonimo, si era dovuto per forza svincolare dal modello biografico. E un altro modello importante, per Lanzi, era stato Zanetti, e la sua Della pittura veneziana (1771), citata esplicitamente dall’autore nell’introduzione, che però era tanto una ricostruzione storica dell’arte della Serenissima quanto un catalogo delle sue opere pubbliche.

Questo ruolo di cerniera giocato da Lanzi tra età moderna ed età contemporanea, tra letteratura artistica e critica d’arte, veniva perfettamente messo a fuoco nell’insuperato manuale delle fonti di Julius von Schlosser Kunstliteratur, 1924: «quasi come una protesta dell’antica storiografia, anche se ultima grande opera che chiude l’età antica, la Storia pittorica del Lanzi si attiene alla tradizione, e innalza la storia degli artisti a un’elevatezza spirituale non ancora raggiunta». Appena due anni prima, riconoscendo quanto profondamente affondassero le radici della Storia pittorica nel Settecento degli eruditi locali, Longhi si produceva in un famoso ‘falso’, ovvero la descrizione di una galleria di pittura barocca inviata allo studioso (Un ignoto corrispondente del Lanzi sulla Galleria di Pommersfelden). Longhi stesso riconosceva così i suoi debiti con un’alta tradizione di studi, che da Lanzi arrivava a Cavalcaselle, e della quale egli si sentiva erede; una tradizione di storici-conoscitori, va da sé, alternativa a quella più angustamente scientifica e classificatoria che da Morelli arrivava a Berenson. E si noti che Lanzi stesso, sempre nel 1792, si augurava che un suo attento lettore sarebbe stato capace, imbattendosi in un dipinto anonimo, di ricondurlo «se non ad un certo autore, almeno ad un certo tempo»; fino a «formarsi a poco a poco un occhio discernitore di ogni stile».

Sul peso di Longhi nella riscoperta e quindi nella fortuna moderna di Lanzi si sofferma Paolo Pastres nel saggio introduttivo dell’edizione critica della Storia pittorica d’Italia appena edita da Einaudi nella collana dei «Millenni» (con un saggio di Massimiliano Rossi, 2 voll. in cofanetto, pp. CLVVI-1158, euro 150,00). Come nel caso di quella precedente, a cura di Martino Capucci per Sansoni (3 voll., 1968-1974), si è partiti dall’ultima edizione licenziata da Lanzi nel 1809, preceduta da quelle del 1792 (un volume in cui si trattava delle sole scuole dell’Italia inferiore: fiorentina, senese, romana e napoletana) e del 1795-’96 (in tre volumi, di cui due dedicati alle numerose scuole dell’Italia superiore). Rispetto all’edizione di Capucci, dove si individuavano e commentavano solo le fonti bibliografiche di Lanzi, questa si distingue prima di tutto per il ricco apparato di note, utilissimo per individuare le opere discusse dall’autore, non sempre notissime. Ed è un peccato che l’indice dei nomi (nel quale i due Borghini, Vincenzio e Raffaello, si sovrappongono) rimandi al solo testo di Lanzi, e non pure alle note. Per fare un solo esempio, non vi compare Bernardo Daddi, autore della Madonna col Bambino che Lanzi, sulla scorta delle fonti, riferiva a Ugolino di Nerio: Pastres, in nota, spiega come l’originaria tavola del pittore senese (e non è certo che davvero lui l’avesse dipinta; e comunque ben difficilmente prima del 1304) doveva essere stata poi sostituita da quella del maestro fiorentino, pagata nel 1347 (e si deve aggiungere che fu proprio il geniale Cavalcaselle il primo a capire che il dipinto ancora oggi in Orsanmichele era certamente posteriore al duccesco Ugolino, morto negli anni trenta del Trecento).

La genesi delle tre edizioni della Storia pittorica è puntualmente ricostruita da Pastres. Il volume pubblicato nel 1792 si presentava con un grande difetto, al quale non sarebbe stato davvero posto rimedio neanche in seguito: Lanzi non era mai stato a Napoli, e per la storia della pittura nell’Italia meridionale egli si era basato essenzialmente sulle Vite di De Dominici, una fonte non sempre affidabile, e manchevole anche dal punto di vista critico. La trattazione di quella scuola non era nemmeno divisa per epoche, e soffriva molto nel confronto con quella della scuola romana. Ma se nel 1790, quando si era messo al lavoro su un’impresa tanto ambiziosa, quel padre gesuita di origini marchigiane, allora già quasi sessantenne, era stato appena nominato antiquario del granduca di Toscana, grazie all’universale apprezzamento dell’erudito Saggio di lingua etrusca apparso l’anno precedente, già nel 1795 egli poteva presentarsi al pubblico dei dilettanti di pittura (ai quali si rivolgeva esplicitamente), con una ben diversa autorevolezza in quel suo nuovo campo di studi.

Bernardo Daddi, Madonna col Bambino, Firenze, Orsanmichele (opera riferita da Lanzi a Ugolino da Siena)

Dopo il successo del primo volume apparso nel 1792, infatti, Lanzi si era imbarcato in una serie di viaggi nel Nord Italia per approfondire sul campo la conoscenza di quelle scuole, spingendosi fino a Novara e Vercelli; e anche a questo proposito il pensiero corre al forsennato tour di Vasari dell’aprile-maggio 1566 compiuto in vista delle integrazioni alle Vite edite due anni dopo. Ancora un altro parallelo: per l’edizione del 1809 Lanzi, ammalato e quasi settantenne, dovette fare affidamento ad amici e corrispondenti, tanto che Pastres parla di «un’edizione in équipe»; per il poco conosciuto Meridione, ad esempio, l’autore poté fare affidamento a quanto fornitogli dallo storico e antiquario Francesco Daniele (comunque non un vero intendente d’arte). Anche Vasari, nel 1568 più che nel 1550, aveva ricevuto aiuto da varie parti, non solo da Borghini, ma anche da Adriani, Cini e da altri collaboratori e amici non ancora tutti identificati. Se si insiste sulle possibili analogie tra questi due capolavori della storiografia artistica è perché Vasari e Lanzi segnano davvero due tappe fondamentali nella storia della nostra disciplina, e a riconoscerlo lucidamente era stato sempre Cavalcaselle, che nella sua Storia della pittura in Italia (scritta con Crowe e pubblicata nel 1864) indicava solo quei due autori come modelli per la sua opus magnum.

Tra quei due grandi storici-conoscitori dell’età moderna e contemporanea, Vasari e Cavalcaselle, Lanzi si colloca in una posizione tutta sua. Perfetto esempio di intellettuale dell’età dei lumi, egli si era inizialmente interessato all’arte da un punto di vista essenzialmente storico. Ancora nel 1792, infatti, Giacomo Carrara, dopo aver conosciuto Lanzi nel corso dei suoi sopralluoghi a Bergamo, lo aveva ingenerosamente definito «corto di vista». Negli anni della sua formazione a Roma, al tempo dei pontificati di Benedetto XIV e Clemente XIV, Lanzi aveva assistito in presa diretta alla crescita dell’interesse per i cosiddetti ‘Primitivi’, da recuperarsi non in chiave di godimento estetico, ma come strumento di conoscenza di quei secoli della civiltà cristiana. Ancora negli anni in cui lavorava, accanto a Pelli Bencivenni, al riordino della Galleria degli Uffizi, Lanzi avrebbe infatti scritto: «Simili opere (le pitture medievali, ndr), tenute fra quadri e fra sculture di buon gusto, guastano in un certo modo la beltà di queste; collocate separatamente danno idea dello stile del loro secolo e servono alla storia delle arti».

Aveva quindi pienamente ragione Longhi (e prima di lui Schlosser) quando sentiva che Lanzi, pur in tutta la sua modernità, era l’ultimo rappresentante della storiografia settecentesca, un uomo perfettamente a suo agio nelle gallerie di Ancién Régime come quella di Pommersfelden. Sarebbe un errore, infatti, credere che Lanzi, colui che avrebbe portato a una complessità mai vista prima la geografia delle scuole artistiche italiane (già quattordici nell’edizione del 1795-’96, con quella ferrarese finalmente valorizzata non più solo a livello locale; si pensi che nel Microcosmo della pittura di Francesco Scannelli, del 1657, uno dei maggiore precedenti alla Storia pittorica da questo punto di vista, le scuole erano solo tre, con quella fiorentina ridotta a premessa della romana), ragionasse in quei medesimi termini di classificazione scientifica se alle prese con l’allestimento di una pinacoteca.

Sempre in una lettera a Pelli Bencivenni egli scriveva infatti: «La quadreria non l’ho mai veduta, che mi ricordi, disposta per via di scuole»; e in caso nelle sale non si sarebbero dovute collocare solo pitture scelte «trasportando le meno scelte nel corridore». Dalla sua descrizione della rinnovata Galleria degli Uffizi, data alle stampe nel 1782, si evince come in quel museo non fosse stato infine adottato il nuovo ordinamento per scuole pittoriche già sperimentato proprio nel mondo di lingua tedesca, a partire dalla fine degli anni settanta, a Düsseldorf e Vienna. I tempi sarebbero però presto cambiati anche a Firenze, e se ancora oggi i maggiori musei di tutto il mondo, a partire dal Louvre, adottano prima di tutto quel criterio per l’allestimento delle pinacoteche, lo si deve in parte anche a Lanzi e alla sua Storia pittorica, tutta incentrata sul sistema delle scuole regionali; e non è l’ultimo dei suoi meriti.

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