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La piccola musica di Jacques Nolot

La piccola musica di Jacques NolotJacques Nolot

Sicilia Queer FilmFest Attore, sceneggiatore e regista a luiè dedicato un focus. Pubblichiamo un estratto dell'intervista che compare sul catalogo del festival

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 26 maggio 2018

(Anticipiamo un estratto del l’intervista al regista a cui è dedicato la sezione Presenze del Sicilia Queer Filmfest e che è pubblicata per intero nel catalogo del festival)

Per evitare di cadere nella trappola, molto frequente quando si parla di lei, di cominciare dalla sua biografia prima di arrivare ai film, ci piacerebbe partire da una parola che attraversa entrambe queste dimensioni e che si sente spesso nelle interviste che lei concede, come anche nei dialoghi dei suoi film. Questa parola è il verbo «osare». Ci sembra che questo verbo si addica decisamente alla sua vita, e quindi anche a ciò che è il suo cinema, dato che nella sua opera le due cose sono strettamente legate: tutto ciò che ha fatto si iscrive nel segno dell’audacia, del rischio. Nella vita lei ha osato moltissimo, e alcuni potranno trovare i suoi film particolarmente osé, nonostante il pudore che li caratterizza…
Mi chiedo se nella parola «osé» non ci sia un po’ la parola «provocazione», soprattutto in relazione a un aspetto generalmente frigido e piatto del cinema francese. In Avant que j’oublie non avevo previsto di mettermi in nudo integrale, e soltanto tre o quattro giorni prima delle riprese mi sono detto «Forza! Osiamo!». Ho pensato che avrebbe dato più forza al personaggio e anche maggiore verità sul corpo, sulla vecchiaia e sul tempo. Anche ne L’Arrière-pays c’è qualcosa di osé, di audace, in effetti: tornare nel mio paese natale per girare un film è stato per me molto violento, con la reputazione che avevo e che ho ancora oggi. Non osavo andarci, avevo dei complessi, una certa timidezza. Ci sono andato per necessità, per urgenza, per portare a buon fine una mia creazione. Per La Chatte à deux têtes ho detto «Osiamo!» perché il mio più grande desiderio inconfessabile in quanto uomo, perfino adesso, è l’idea di passeggiare e di rimorchiare per strada vestito da donna. Ma non oserei mai farlo.
Il suo secondo lungometraggio, «La Chatte à deux têtes», appare come una sorta di parentesi felice nella trilogia, anche se il film affronta questioni drammatiche. Se «L’Arrière-pays» racconta l’inferno dell’infanzia e «Avant que j’oublie» l’inferno della vecchiaia, «La Chatte à deux têtes» è il film che rispecchia di più la vita che lei faceva a Parigi.
Dopo L’Arrière-pays mi dicevano: «Nolot è simpatico, ma non mostra niente della sua vita parigina». All’epoca avevo un compagno, Saïd, che è morto di AIDS. È una delle fonti del film. D’altra parte avevo già scritto molto nei cinema porno, ho trascorso la mia gioventù nei cinema porno. Volevo parlare della repulsione ipocrita degli eterosessuali, che andavano nei cinema porno per fare pompini ai travestiti, per farsi sodomizzare dai travestiti, pur disprezzando i froci. Per me era anche una questione di impegno politico, di etica. Scrissi La Chatte à deux têtes molto velocemente, in un mese. Per me il film è stato rivitalizzante: vi ho riversato tutta la mia violenza, tutto il mio odio, la mia amarezza gaudente e la mia sofferenza. Siccome non ho immaginazione, ma ho una memoria eccezionale delle conversazioni e delle parole – non è necessariamente un dono –, la maggior parte dei dialoghi deriva da cose che mi hanno detto o che ho sentito. È una cosa molto soddisfacente durante la scrittura.
Qual è la sua posizione rispetto al cinema gay, al cinema queer? Con «La Chatte à deux têtes» e con il cortometraggio «Manège» ha mostrato un universo che si vedeva raramente al cinema, e con un misto incredibile di pudore e sensualità.
Credo di avere questo tipo di eleganza. Per La Chatte à deux têtes è stata durissima, perché affronta un argomento molto delicato. Nel momento stesso in cui parli di omosessualità tocchi una corda molto sensibile per gli uomini, o in ogni caso per quanto riguarda questo contesto. Durante le riprese ero un po’ come un padre, come uno psicanalista, per portare gli attori a fare quello che hanno fatto, perché all’inizio c’erano molte riserve e reticenze. Dovevo essere molto dolce, tenero, dicevo loro: «Potete rifiutare. Potete fare questo, potete fare quest’altro», e hanno comunque accettato perché in questa maniera ho saputo guadagnare la loro fiducia. Ho pensato a In the mood for love, in particolare per il personaggio di Olivier Torres che passeggia lentamente fra le file della sala cinematografica. Volevo che la macchina da presa seguisse i suoi movimenti con sensualità. Avevo molta paura della pornografia, ma non penso di esservi caduto.
Per tornare alla sua domanda sull’ambiente omosessuale e sul cinema gay: io sono omofobo, non mi piacciono né l’ambiente omosessuale, né i film omosessuali. Ho veramente molti problemi con tutto questo. La Chatte à deux têtes è il film che ha avuto maggiore successo di pubblico omosessuale. Lo hanno visto in molti, invece Avant que j’oublie è stato proprio evitato; tutti dicevano: «Non andate a vederlo!», perché gli omosessuali non volevano vedersi invecchiati, si credono giovani e belli in eterno. E poi, in Avant que j’oublie mostro che, a partire da una certa età, in questo ambiente bisogna pagare per fare sesso; e questo, nessuno vuole sentirselo dire.
Lei parlava di impegno politico. Si potrebbe dire che la sala cinematografica de La Chatte à deux têtes permette quasi la concretizzazione di un’utopia sessuale in cui le persone si amano senza l’ipocrisia dei rapporti, in cui regna una sorta di comunismo sessuale, no?
Sì, ma non si amano; nessuno si ama, succede quel che succede, il primo che arriva prende quello che trova, è l’illusione del sesso, l’illusione dell’amore. È per questo che la canzone Amor, amor alla fine va interpretata ironicamente, con derisione. I tre vanno via insieme, per il momento si amano, ma non sono mica degli ingenui.
La sala di proiezione de La Chatte à deux têtes è anch’essa un paesino dove tutti conoscono tutti, una sorta di arrière-pays della sessualità.
Ci sono dei codici di comportamento. Nelle orge, nei club di scambisti, ci sono dei codici, esattamente come nella mondanità. Conosco bene questi codici. Ho vigilato molto durante le riprese, temevo che tutti gli attori scopassero troppo tra di loro, ma soprattutto temevo che facessero le checche, e non volevo sposare la causa dell’omosessualità femminilizzando i personaggi. L’esempio da cui stare alla larga, per quanto mi riguarda, è Di giorno e di notte di Gabriel Aghion, che è un film profondamente omofobo, patetico e ridicolo. Non parlo de Il vizietto, perché approvo la caricatura, la caricatura de Il vizietto non mi dà fastidio perché il suo senso va molto più lontano. Ma girando La Chatte à deux têtes ho fatto molta attenzione a non permettere che gli eterosessuali si sentissero la coscienza pulita. Nel momento stesso in cui mostri i froci come delle checche, gli eterosessuali sono contenti e non si sentono minimamente chiamati in causa. Questo ho voluto assolutamente evitarlo.
Una cosa che accomuna tutti i suoi film è l’importanza dei rituali. In fin dei conti, lei non fa altro che filmare dei rituali o dei momenti della sua vita esattamente come se fossero dei rituali: la morte della madre o il rugby ne «L’Arrière-pays», la scrittura, le sedute di psicanalisi e la sessualità in «Avant que j’oublie», la seduzione nella sala de «La Chatte à deux têtes».
Penso che tutto ciò faccia parte della mia vita, quindi è normale, ma – permettetemi l’espressione – è anche la mia impronta cinematografica. Tutti i film finiscono nello stesso modo, con una canzone alla fine. L’Arrière-pays comincia molto lentamente, con questo paesaggio del Sud-ovest; La Chatte à deux têtes con un’inquadratura in cui Olivier Torres passeggia da solo, in silenzio, senza rumori, senza niente; e in Avant que j’oublie con la citazione di Malevitch, il punto bianco, e il punto nero della morte.
Si entra e si esce dai suoi film.
Esattamente.
«Avant que j’oublie» è forse il suo film più crudo rispetto al corpo, rispetto al suo corpo, che lei mostra più che negli altri film. Si potrebbe dire che è la storia di un corpo che lotta, in particolare contro la malattia.
Per quanto mi riguarda, non lotta contro la malattia, lotta contro l’ansia di vivere, contro la paura di invecchiare e la paura di non riuscire più a scrivere. Se c’è un malessere profondo, esso risiede nelle difficoltà di un uomo che invecchia, che non ha più nulla da dire e che cerca una circostanza – in questo caso, la morte di Toutoune – che lo spinga alla scrittura del film. Ma la malattia non è un motore, lo sono piuttosto la vecchiaia, la paura di essere brutto, di non sedurre più.
E con la vecchiaia, per sedurre e per fare sesso…
…si paga.
Ecco. Tutto si paga, tutto ha un prezzo, tutti hanno un prezzo nel film: i gigolò, gli psicanalisti, perfino i morti. I personaggi hanno tutti un rapporto ossessivo con il denaro.
Sì, è l’argomento del film, parlo nello specifico di un gigolò che diventa un cliente di altri gigolò, un uomo che paga, che fa i conti con il denaro, che ha perso tutto il denaro del suo compagno, con l’eredità… Ho fatto del personaggio un gigolò, una specie di parvenu, che spreca il denaro, lo esibisce: è molto volgare… Non so bene come rispondere a questa domanda, perché per me è ovvia, è legata alle mie condizioni di vita.
Sul grande schermo questo genere di rapporto con il denaro e con il sesso non si vede mai, non se ne parla mai, forse perché è scioccante, o forse perché non si ha alcun interesse a mostrarlo.
Perché c’è ipocrisia, o perché le persone lo ignorano… credo che ogni regista parli di ciò che conosce. Io conosco questo, quindi parlo di quello che conosco: il rapporto con il denaro, con la vecchiaia, con i gigolò, con la malattia; e lo accentuo un po’ per delle ragioni legate a cinematografia e sceneggiatura.
Come mai ha scelto il passo di Gilles Deleuze sulla stupidità, quello che il suo personaggio ascolta in macchina?
Un giorno, per caso, ho sentito il testo di Deleuze in macchina, e mi è piaciuto molto. Trovo che la stupidità sia aggressiva. Il mio personaggio, per il fatto che io mi permetto di dire quello che dico nel film, lo trovavo stupido, e con lui trovavo stupido forse anche me stesso, Jacques Nolot. Volevo dire: ecco forse un’altra mia caratteristica, la stupidità. Avevo paura di diventare quello che fa la lezioncina.
Nel senso che si pensa che la stupidità riguardi sempre gli altri…
Esattamente. Volevo che questa citazione fosse riferita a me. La gente potrebbe pensare che ho scelto il testo per il personaggio dell’intellettuale, ma in realtà l’ho messo per me, per il mio personaggio, che si permette di dire molte cose, che fa sempre la lezioncina, che paga, che parla solo di se stesso. Ma chi è per permettersi tutto questo? Non è forse un idiota? È per questo che metto Deleuze.
«Avant que j’oublie» è anche un film molto divertente, lei ha un senso molto sviluppato della battuta comica. Non ha mai avuto la tentazione di avvicinarsi un po’ di più al comico?
È interessante, ci pensavo l’altro giorno. In effetti, sono io stesso a pormi dei limiti. Avevo scritto dei pezzi molto più divertenti, ma trovavo che sarebbero stati troppo da «cinema francese», quindi li ho eliminati, e ho mantenuto il minimo. Al cinema adoro sorridere, ma non amo ridere. In Avant que j’oublie, quando mi faccio sbattere dal gigolò, c’era della polvere sotto il letto, e avevo scritto: «C’è polvere sotto il letto, devo dire alla donna delle pulizie di venire». Ma ho pensato che fosse molto più divertente dire: «Questo sì che fa male!», senza aggiungere «C’è polvere sotto il letto», che faceva troppo boulevard. L’umorismo è una meccanica, si calcola, si dosa. La battuta di troppo toglie forza alla comicità. Credo che lo abbia detto Sacha Guitry, io lo osservo nella vita: una battuta diverte, ma tutto a un tratto arriva una frase di troppo che rovina la vis comica.
Il suo è un cinema della parola, ma anche un cinema del silenzio e soprattutto della voce.
Sono prigioniero della voce: scelgo gli attori, o anche i non attori, sulla base della voce, anche se devono dire solo una frase. Per i non professionisti, ma anche per gli attori di professione, la voce parla da sé: un attore è una voce, uno sguardo, un corpo. I miei dialoghi sono abbastanza triviali, e ad esempio l’accento che utilizzo ne L’Arrière-pays fa sì che funzionino, e quando dico «rottinculo» o quando dico «retti fragili» con la mia tecnica particolare va comunque bene: posso dirlo. C’è una dolcezza, un modo di dire le cose, che dipende dalla voce.
Lei è anche un attore con una dizione molto particolare, un modo di recitare quasi ai limiti della credibilità e che ha molto della stonatura. È come se ci fosse una «piccola musica» di Jacques Nolot, che è affascinante e che crea un leggero sfalsamento, a volte umoristico, rispetto alle situazioni, che sono spesso abbastanza gravi.
Non è una cosa che coltivo, non lo faccio apposta: io sono così. Ho dei problemi di dizione, ma non cerco di migliorarla, di correggermi. Per alcuni sono delle qualità, per altri restano dei difetti. A questo proposito André Téchiné ripete sempre una frase, che ha preso forse da Louis Jouvet: «A teatro lavori, al cinema sei lavorato». La vita che ho fatto, l’ho scelta e allo stesso tempo mi è stata imposta. Sono arrivato a Parigi a diciassette anni, ho seguito dei corsi di arte drammatica, e siccome non avevo genitori che mi mantenessero e non volevo lavorare, non ho avuto scelta: ho fatto la puttana. In seguito ho scoperto la mia omosessualità, ma all’inizio andavo con le donne. È la storia di Niente baci sulla bocca, il personaggio interpretato da Emmanuelle Béart sono io. Poi ho fatto il gigolò e questa vita da gigolò è stata estremamente violenta, ma nessuno mi ha chiesto di farla: sono l’unico responsabile di quello che mi è successo. Ho avuto grossi problemi con la polizia, con i delinquenti. È stupefacente rivedere tutto il cammino percorso, adesso, alla mia età. Credo di aver condotto la mia esistenza in un certo modo per ottenere quel che volevo ottenere. Col senno di poi, è sempre più facile dirlo. Se faccio un bilancio della mia vita, sono abbastanza soddisfatto. Avrei potuto fare dei film a venti o venticinque anni, ma non ero pronto, perché non avevo vissuto abbastanza. In fondo, mi chiedo se, fino a questo momento, non ho vissuto la vita in funzione del risultato che avrei potuto ottenere.

traduzione di Eugenio Bisanti

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