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La “piccola Iliade” in cui Virgilio affiancò il suo eroe

La “piccola Iliade” in cui Virgilio affiancò il suo eroeFederico Barocci, Fuga di Enea da Troia, 1598, Roma, Galleria Borghese

Letteratura latina All’inizio del secondo libro Enea è invitato da Didone a «rievocare un dolore indicibile»: l’ultima notte di Troia; e l’evento «mitistorico» con cui si confronta Virgilio diviene asse strategico del poema. Il nuovo commento di Sergio Casali, Edizioni della Normale

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 27 maggio 2018

Il lettore che inizia il libro II dell’Eneide non ha dubbi sul fatto che il protagonista del poema sia destinato a un grande futuro sul suolo italico. Lo dice la leggenda, naturalmente, e Virgilio stesso nel proemio ha già dichiarato come, dopo tante sofferenze, Enea dovesse portare gli dèi troiani nel Lazio, gettando le fondamenta per le «mura dell’alta Roma». Adesso, però, questo eroe vincitore è invitato dalla regina Didone a «rievocare un dolore indicibile», come è lui stesso a dire nel celebre attacco (infandum, regina, iubes renovare dolorem). Si intravede il futuro in cui Enea, con i suoi alleati, vincerà la guerra contro i popoli latini, ma per il momento lo ascoltiamo narrare, nella reggia di Didone, i luttuosi eventi della notte in cui Troia cadde, cioè la sua più grande sconfitta come capo guerriero.
L’evento «mitistorico», con cui nel libro II Virgilio si confronta, è enorme, il vero archetipo della «distruzione della città», e, per giunta, nemmeno trattato distesamente nei due poemi maggiori di Omero. Che si tratti di una prova notevole per un narratore epico, Virgilio lo lascia intendere anche per il modo con cui la prepara, già in più punti del libro I, creando una forte tensione narrativa. Quando, in apertura di libro, Enea inizia a parlare, qualunque lettore, al pari dei convenuti al banchetto di Didone, non può far altro che rivolgergli tutta la propria attenzione («Tutti tacquero, e fissavano attenti i suoi sguardi su lui»). Perché Virgilio, di fronte al difficilissimo compito di raccontare come va a finire la vicenda dell’Iliade – «completando» Omero – ha scelto di aiutarsi con Omero stesso: come avveniva con il protagonista dell’Odissea, che presso i Feaci raccontava le proprie traversie, Virgilio adesso lascia la parola a Enea, che dell’ultima notte di Troia può parlare come di un fatto vissuto in prima persona e ancora di attualità. Non poteva darsi un modo migliore, per il poeta epico latino, di innestarsi nel pieno della dimensione eroico-omerica.
Non mancavano, in realtà, testi e tradizioni varie che Virgilio e i suoi lettori avevano sicuramente a disposizione sull’argomento (e oggi sono perduti): l’inganno del Cavallo e la caduta della città erano raccontati in due poemi ciclici, la Piccola Iliade e la Distruzione di Troia (Ilioupersis). Ma qui Virgilio è voluto risalire al momento in cui tutti quei racconti, notizie di un passato appena trascorso, iniziavano a diffondersi sulle varie sponde del Mediterraneo. Tra le anticipazioni contenute nel libro I, ce n’è addirittura una che viaggia sul piano comunicativo più diretto e immediato, quello delle immagini: da poco sbarcato in terra d’Africa, Enea si accorge, non senza qualche meraviglia, che alcuni tra i fatti di Troia sono rappresentati nelle pitture che adornano il tempio di Giunone a Cartagine (l’artista, anzi, deve essere stato piuttosto abile e informato, perché Enea si riconosce senza difficoltà in una delle figure [se quoque… adgnovit]). E adesso tocca proprio a Enea, in prima persona, raccontare come siano andate le cose, rispondere alle curiosità della regina, che verso la conclusione del libro I gli si rivolge con animo ormai già sotto l’effetto di Cupido.
Prospettiva del narratore
Quello di Enea, però, non è un racconto facile, e non solo per la dolorosità (renovare dolorem…) della vicenda. È stato uno tra i grandi meriti di Richard Heinze, illustre studioso tedesco di Virgilio (1867-1929), essersi posto nella prospettiva del narratore per comprendere al meglio le difficoltà cui era esposto chi volesse raccontare la caduta di Troia dal punto di vista dei fuggitivi. Tanto Enea, che degli eventi fu protagonista e vittima, quanto il poeta dell’Eneide che gli dà voce, devono riuscire nell’impresa di raccontare – in una modalità dignitosamente eroica – come fosse potuto avvenire che i Troiani cadessero in un inganno come quello del Cavallo, di per sé non proprio irresistibile, e come il grande Enea, mentre la sua città bruciava, avesse trovato la via per salvarsi, scampando a quella morte onorevole, in battaglia, cui invece tanti suoi compagni erano andati incontro. Già in un frammento della Guerra punica del predecessore repubblicano, Nevio, la necessità di un chiarimento su questo punto sembra essere espressa in modo piuttosto diretto, ma non senza, significativamente, qualche riguardosa cautela (si è pensato, senza però argomenti decisivi, che il soggetto potesse essere proprio Didone, intenzionata a stimolare il racconto dell’eroe): blande et docte percontat, Aenea quo pacto / Troiam urbem liquerit «con blandizie e sapienza si informa sul modo in cui Enea / abbia lasciato Troia».
Del grande libro di Richard Heinze (La tecnica epica di Virgilio [Teubner 1915,terza ed., trad. ital. il Mulino 1996]) sono eredi, in varia misura, tutti i più avveduti interpreti e critici virgiliani degli ultimi cento anni e sulla sua scia si pone adesso il nuovo commento al libro II di Sergio Casali (Virgilio, Eneide 2, introduzione, traduzione e commento a cura di S. C., pp. 392,euro 25,00), primo volume della collana «Syllabus», con cui le Edizioni della Normale di Pisa si propongono di fornire, alla scuola e all’università italiane, commenti ai testi classici che coniughino la solidità scientifica alla chiarezza espositiva, come dichiarato da Gianpiero Rosati nella Premessa. E indubbiamente questo libro dell’Eneide si presta particolarmente ad essere letto e studiato da giovani ancora in fase di formazione: si può dire che Virgilio abbia vinto la sua scommessa, perché la sua «continuazione» dell’Iliade si è da sempre imposta come un classico della scuola. Un successo ininterrotto dall’antichità fino a oggi, di cui sono testimoni le numerose citazioni o reminiscenze del libro II negli autori antichi e moderni, come già nei testi epigrafici o nei graffiti pompeiani. E fu questo libro dell’Eneide che piacque di tradurre al giovane Leopardi, il quale così, con schietto latinismo e un poco faticosamente, rendeva in endecasillabi l’attacco di Enea: «Infando, / o regina, è il dolor cui tu m’imponi / che rinnovelli».
Proprio su di un testo come questo, Sergio Casali è interprete particolarmente qualificato e prezioso: e non soltanto per la sua ormai lunga esperienza negli studi virgiliani, che ha prodotto molti contributi importanti, ma soprattutto per la salutare intransigenza che lo caratterizza e che gli permette di leggere anche il testo più celebrativo (e celebrato) osservandone in controluce tutte le piegature, ricostruendo il lavorio di selezione con cui il poeta ha voluto indirizzare il lettore tra le tante tradizioni, senza escludere quelle scomode e, talvolta, soggette a censura. Grande esperto della tradizione esegetica virgiliana, a partire da quella antica fino a quella moderna (questa, in particolare, rilanciata dal commento del gesuita Juan Luis de La Cerda, 1612), sensibile agli approcci più aggiornati degli studi classici, Casali si inserisce appunto nel gruppo dei commentatori più capaci di seguire il testo virgiliano nelle sue problematicità: sovvengono i nomi di Philip Hardie, Stephen Harrison, Nicholas Horsfall, Richard Tarrant, Alfonso Traina. Una tale raffinatezza esegetica non va disgiunta, però, dalla solidità filologica, che approda nel volume a una revisione critica del testo, fondata sulle principali edizioni (quelle di Roger Mynors, Mario Geymonat e, soprattutto, Gian Biagio Conte), e che al contempo produce un apparato critico autonomo e originale.

Il commento di Horsfall

Non c’è dunque da dubitare che questo nuovo commento al libro II si imponga sia all’attenzione degli studiosi, come un prezioso strumento di riferimento e stimolo per la ricerca, sia, secondo gli obiettivi della collana, al pubblico dei lettori italiani, soprattutto nel contesto di scuole e università. Il più recente commento al libro II, infatti, pubblicato esattamente dieci anni fa (Brill, 2008), è quello in lingua inglese del già ricordato Horsfall, uno tra i più produttivi e instancabili studiosi di Virgilio dei nostri tempi: esso, però, per dimensioni (e prezzo…), per l’approccio ultra-specialistico e per il modo stesso dell’annotazione, molto tecnico (a rischio talvolta di riuscire criptico o «iniziatico»), non si presta all’adozione presso le università e tantomeno le scuole italiane. Piuttosto, per le sue caratteristiche di formato e approccio, il commento di Casali potrebbe invitare al confronto con quello oxoniense di Roland Austin (in inglese), ovvero con quello italiano, ma più limitato nei suoi obiettivi, di Feliciano Speranza. Basti dire, però, che entrambi questi commenti, pubblicati tutti e due nel 1964, sono ormai inevitabilmente carenti sul piano dell’aggiornamento bibliografico – tanto più quando si pensi all’enorme vitalità degli studi virgiliani nell’ultimo cinquantennio.
Se, dunque, il commento di Casali restituisce al lettore un testo spiegato con precisione e cura, anche tramite una traduzione in prosa estremamente affidabile, riesce cioè a produrre un’esegesi chiara e documentata, oggettivamente utile, il Virgilio che emerge da questa impresa interpretativa è un autore complesso, che non mira ad appianare le contraddizioni con cui egli stesso si trovò a confrontarsi durante la stesura di un poema epico su quell’esule sconfitto, che abbandona la sua città in fiamme e poi diventa eroe nazionale di Roma. In un caso in particolare, come dicevamo (è la proficua intuizione di Heinze), il poeta Virgilio e il narratore Enea sono solidali, quando si tratta di spiegare come sia stato possibile che la trovata del Cavallo abbia funzionato. Non è stata soltanto l’astuzia umana, di Ulisse e di Sinone, a ingannare Enea e i suoi concittadini, ma – come Casali mostra – allo scopo è riuscito decisivo l’intervento divino: i due serpenti marini che uccidono Laocoonte (figura introdotta nella tradizione relativamente tardi, per rispondere alla necessità che almeno ad un Troiano venisse in mente di seguire le più ovvie procedure di sicurezza in tempo di guerra) devono essere inevitabilmente interpretati dai Troiani come una conferma di veridicità, proveniente dagli dèi, che avvalori il discorso di Sinone, di per sé tutt’altro che lineare e privo di contraddizioni.
Giustificazione morale
Per questa via dunque, secondo l’interpretazione di Casali, la vicenda del Cavallo si connette direttamente al tema cruciale del libro II, posto a fondamento della giustificazione morale e ideologica indispensabile per l’eroe Enea, e che così può riassumersi: Troia è caduta ed Enea è fuggito, salvando i Penati, perché questa era la volontà divina. Qui Virgilio, poeta epico della Roma augustea, doveva fare i conti con tradizioni ostili già consolidate, sorte nella cultura ellenistica e stimolate da sentimenti antiromani, che mettevano in dubbio l’eroismo di Enea, facendone addirittura un traditore, salvatosi perché, nelle parole dello storico greco Menecrate di Xanto, era diventato «uno degli Achei». Che Virgilio avesse da «difendere» il proprio eroe, seppure con la sovrana astuzia narrativa di lasciare a lui stesso (e alla sua responsabilità…) l’onere del racconto in prima persona, è evidente nella sovrabbondanza di temi e trovate che ne giustificano le azioni: l’apparizione notturna di Ettore, che (lui, colonna della città e morto per essa) lo esorta a lasciare Troia, ma il cui suggerimento Enea decide di non accogliere, cercando la morte in battaglia con un furor quasi suicida; l’intervento della madre Venere, che in una grandiosa apocalissi gli rivela come gli dèi stessi si stiano accanendo contro Troia, e quindi lo convince a correre in aiuto della sua famiglia; l’ostinazione del padre Anchise, determinato a farsi uccidere dal nemico, il quale torna così a impersonare l’idea omerica dell’autoimmolazione e in effetti induce Enea a voler tornare in battaglia, tanto che soltanto, ancora una volta, l’intervento divino, con il prodigio delle fiamme sul capo di Ascanio e il tuono di Giove, persuade l’anziano padre (e quindi il figlio) a desistere.
Fonte di scandalo era anche il modo piuttosto improvvido con cui Enea perde Creusa, dando la sensazione che un marito innamorato avrebbe saputo come tenersi al fianco la propria moglie: e Virgilio stesso amplifica questa sensazione attivando più volte, come mostra finemente Casali, la memoria a contrasto di Orfeo e Euridice (se Enea si fosse voltato come aveva fatto, sbagliando per troppo amore, Orfeo, forse sarebbe riuscito a non perdere Creusa, che in alcune fonti per altro ha nome proprio Euridice). E qui il commentatore Casali si mette al fianco di un particolarissimo lettore di Virgilio: l’Ovidio delle Heroides, che nell’epistola di Didone fa sì che la regina rimproveri a Enea proprio di aver crudelmente abbandonato la moglie.
In conclusione, l’approccio esegetico di Casali, e il commento che ne è il frutto, sono perfetti per «preparare» un esame e sapere tutto quello che c’è da sapere su di un testo cruciale della letteratura latina. Ma questo volume è anche un prezioso strumento per leggere Virgilio e seguirne la straordinaria impresa di narratore e poeta soprattutto per le difficoltà che essa comportava. Non era cosa da nulla, per un poeta che aveva cantato di pascoli e campi, di amori, di fiori e di alberi, corrispondere all’obbligo – sostanzialmente assente dai poemi omerici – di un poema nazionale ideologicamente orientato, cioè vincolato a una rappresentazione positiva e nel complesso incoraggiante del mito finalizzata alle esigenze dell’oggi. In questa sua «piccola Iliade» Virgilio ha tentato una poderosa sintesi: il suo eroe riconosce la volontà divina negli eventi e tanto gli basta per proseguire nel suo cammino e, a suo modo, per dichiarare con onestà il proprio personaggio. Se Didone, presa d’amore per l’intervento di Cupido, resterà sorda a ogni ragione, Enea per parte sua le sta raccontando come, per volontà divina, egli abbia dovuto e potuto lasciarsi alle spalle addirittura la legittima moglie, madre di Ascanio. E per volontà divina dovrà abbandonare, non troppo sorprendentemente, la stessa Didone. Adesso è il momento di «rinnovare il dolore», ma per prepararsi a una storia che deve proseguire, lontano dalle coste d’Africa, con nuove guerre, assedi e, naturalmente, uccisioni. Il fato lo vuole.

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