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La persona che serve (e che manca)

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La questione del leader Con alcune eccezioni colpisce l’assenza da noi di una riflessione su una delle caratteristiche più visibili di questo processo di ristrutturazione della sinistra di alternativa, e cioè il ruolo di forza trainante assunto dalle varie leadership.

Pubblicato quasi 10 anni faEdizione del 7 gennaio 2015

L’attuale clima internazionale pare particolarmente propizio alla ripresa di vigore, anche in Italia, di una sinistra di alternativa credibile e potenzialmente egemonica. Vicende a noi assai prossime, come quelle greche e spagnole, spingono in questa direzione. Al contempo, i modelli offerti dalla rinascita socialista e populista dell’America Latina cominciano a essere guardati con sempre meno snobismo e sempre più attenzione anche in realtà come la nostra. Come se, in parallelo col degradare del Paese nel suo complesso a periferia nelle gerarchie del sistema-mondo attuale, la sinistra italiana avvertisse la necessità di un bagno di umiltà, di cominciare ad «abbeverarsi» a realtà in altre epoche osservate con sprezzante distacco. Ci si accorge, tra l’altro, che a sua volta la nuova ondata della sinistra internazionale si avvale a piene mani della lezione del pensiero critico italiano, e in particolare di Antonio Gramsci.
Con alcune eccezioni (buon ultimo Luciano Gallino, La Repubblica, 16 dicembre), colpisce tuttavia l’assenza da noi di una riflessione su una delle caratteristiche più visibili di questo processo di ristrutturazione della sinistra di alternativa, e cioè il ruolo di forza trainante assunto dalle varie leadership. La ragione di questa rimozione ha le proprie radici nella stagione berlusconiana appena conclusasi: individuando, giustamente, nel berlusconismo la negazione di tutti i principi e di tutte le prassi politiche idealmente appannaggio della sinistra, il personalismo, che del berlusconismo è stato struttura portante, è rifuggito come elemento intrinsecamente negativo. Ma, se l’espulsione del personalismo dall’arena politica costituirebbe una operazione in sé salutare, si corre il rischio di confondere personalismo e necessità di una leadership forte.

Un errore che il movimento operaio italiano si è sempre guardato bene dal compiere. È stata piuttosto la Democrazia cristiana, nel corso della prima repubblica, a scontare un forte deficit di guida carismatica. Paolo Bonomi, forse l’unico vero leader «populista» della storia Dc, è sempre stato guardato, nel suo partito, con (grata) diffidenza. Non a caso il gruppo dirigente doroteo è stato dipinto da Piero Craveri un «condominio»; ed è stato facile ironizzare sui Piccoli, Storti e Malfatti che questo condominio si trovarono ad amministrare.
Lo stesso non può dirsi per i partiti della sinistra. Togliatti e Berlinguer, Morandi e Nenni esercitarono una leadership carismatica sul movimento operaio, la cui forza contribuisce, anche se solo in parte, a spiegare quella delle organizzazioni collettive che si trovarono a guidare. I funerali dei due leader comunisti, lungi dal rappresentare un episodio di strumentalizzazione a fini di consenso, rappresentano ancor oggi un momento insuperato di autoidentificazione collettiva, come «popolo», di milioni di persone.

Bisogna d’altro canto riconoscere che negli ultimi anni si è assistito ad un proliferare di «partiti personali» subito eclissatisi assieme al leader di turno. Ma si deve fare attenzione a non confondere leadership «mediatica» e leadership «populista». La prima, prodotta dall’alto delle agenzie pubblicitarie e di sondaggi e senza ancoraggi col paese reale, assegna al «popolo» un ruolo del tutto passivo, di fruitore di un prodotto altrove confezionato. Il telespettatore, appunto. La leadership populista, per sorgere ed affermarsi, ha bisogno invece di alcune caratteristiche di natura immanente: una forte mobilitazione dal basso; un comune sentire che si struttura attorno al leader, e una sua capacità di visione e di sintesi delle varie istanze popolari. Un «popolo» nasce, e si auto-identifica come tale, prima ancora che emerga il leader, con funzione di catalizzatore. Il «popolo» comunista dei funerali di Togliatti, ad esempio.
Al di là delle apparenze, dunque, l’emergere della leadership populista, a differenza di quella mediatica, è sempre un processo collettivo. Non è un caso che, nelle realtà contemporanee cui si accennava all’inizio, l’affermarsi di una nuova leadership è sempre andato di pari passo con lo strutturarsi di soggetti collettivi e l’emergere di nuovi gruppi dirigenti. In alcuni casi (PT brasiliano, Syriza), soggetti collettivi pre-esistenti sono stati rafforzati; in altri (Podemos, Frente para la Victoria in Argentina) movimento popolare e leadership sono cresciuti in parallelo; in altri ancora (Psu Venezuelano) il partito è stato creato in seguito alla presa del potere, a certificare che, senza una rappresentanza stabile degli interessi organizzati, la lotta egemonica rimane zoppa ed esposta a retrocessi improvvisi.

Non è un caso, tornando all’Italia, che la crisi dei soggetti politici collettivi della sinistra di alternativa sia stata accompagnata, e facilitata, (anche) da un vuoto di leadership, venutosi a creare ormai trent’anni fa con la scomparsa di Berlinguer. Per questo dovrebbe essere chiaro che la ristrutturazione di un soggetto collettivo forte, e l’individuazione di una leadership dotata di un’altrettanto forte capacità di direzione, lungi dall’entrare in contraddizione, costituiscono compiti imprescindibili al fine di presentare un’alternativa di sinistra credibile e potenzialmente egemonica anche nel nostro Paese.

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