Forse è colpa della scuola: per effetto dei latinucci e del ginnasio, le favole antiche di Fedro ed Esopo spirano un’aria poco gioiosa, grondante di moralismo, suggerendo insomma recollections non così serene e gradevoli. Eppure il materiale favolistico, riguardato dalle origini e nel suo significato per il mondo antico, ebbe un ruolo notevole, come momento di cultura «popolare», e come portatore quindi, forse più dei proverbi, di una visione della vita e del mondo.

Lumeggiare questo e altri aspetti di tali testi è lo scopo dell’approfondito e ampio volume di Antonio La Penna La favola antica Esopo e la sapienza degli schiavi (a cura di Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini, Della Porta Editori, pp. 420, € 25,00), che raccoglie alcuni scritti di differente taglio, composti nell’arco di vari anni (1960-1990). Le pubblicazioni originarie non erano sempre di facile reperibilità: uno dei saggi di più largo interesse, quello dedicato a La morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità, era uscito su «Società» nel 1961: una sede non professorale, ma certo significativa, che spiega così la preoccupazione di inquadramento del proletariato antico entro le categorie marxiane. Né ciò rende datato il testo: una frase come «la libertà muore, se non sa estendersi: il che vuol dire, se non sa sostanziarsi di eguaglianza» (p. 332), pensata in rapporto al socialismo di quegli anni, suona fin troppo attuale nei nostri. Pur se mossi da problemi coerenti, i lavori riuniti in questo libro non confluirono mai in un’opera unitaria, e nemmeno questa silloge lo è: accanto a saggi generali vi sono contributi particolari, raccolti in appendice (compreso un testo in latino, come richiedevano i concorsi accademici).

Un libro sulla favola antica, però, venne pensato da La Penna, e fu prefigurato in un progetto editoriale del 1952, richiamato dai curatori in apertura di questo volume, perché vi si definiva con chiarezza «il notevole significato della favola come razionalismo popolare, conservatosi negli strati umili, di fronte all’idealismo e alla morale eroica della cultura antica greca (da Socrate in poi)» (p. 16). L’indagine appare sorretta da una spinta ideologica, nutrita anche da esperienza personale circa la condizione degli «ultimi». La questione è dunque ben inquadrata: la favola mostra che la «morale popolare greca» non albergava, come troppo spesso si è fatto credere, tra i filosofi e gli intellettuali, né tra i poeti (Esiodo a parte). E non idealizzava l’esistenza del singolo, attribuendogli energie grandiose o immaginando provvidenze salvifiche: in quel mondo, lucidamente crudele, chi sbaglia (di solito, per stolidità) paga e spesso muore, ma ciò non configura una teodicea. I testi, considerati in sequenza, paiono insegnare invece una prudente e scettica rassegnazione (alla padron ’Ntoni, verrebbe da dire), che demistifica ogni idea di «riscatto» nel mondo e crea una forma popolare di realismo: uno sguardo di verità sulle relazioni umane e sociali, che svela ipocrisie egoismi e vanaglorie, e conferma nella storia il ruolo giocato dall’astuzia e dalla forza.

Assente è nelle favole il correttivo che compare per esempio nell’epica, quando a servirsi della forza e dell’astuzia sono figure grandi e nobili. La favola esopica, allora, può così esser definita, con efficace immagine, come «la mitologia razionale di Tersite succeduta alla mitologia fantastica degli aedi» (p. 323).

Assente, si comprende, è anche il consolante ruolo della cultura. Nessuna paideia può correggere i vizi umani: al più conta l’esperienza che aiuta a riconoscerne la traccia. Perciò il mondo della favola è in genere «senza sorriso», assai lontano dal bamboleggiare di certa produzione moderna per l’infanzia. E tale è il tono diffuso, seppure non onnipresente, nell’ampio corpus della favola antica. Compresa la produzione latina: cent’anni or sono, Concetto Marchesi descriveva Fedro come «uno scrittore che reagisce contro il sentimento umile della carità e del perdono», forse per effetto di «un ricordo (…) di offese ricevute e invendicate». Suggestiva ipotesi: ma troppo poco si sa sugli autori. La tradizione antica ha tramandato certo un testo biografico, noto come Romanzo di Esopo, in varie redazioni che conglomerano elementi anche di tradizione folclorica. Un testo interessante, qui studiato, che era espressione di una sapienza «altra», sempre irridente verso la cultura alta, e persino verso aspetti della tradizione nazionale: lo mostra la vistosa polemica contro la sapienza delfica. Ma non ci si illuda: in modo non del tutto inatteso, il Romanzo non sollecita solidarietà «proletaria», e invece appare segnato da pessimismi e da tradizionale misoginia.

Sarebbe bene poter precisare meglio i destinatari della produzione favolistica, certo vari nel tempo e nello spazio: appare chiaro che un inquadramento solo nella cultura popolare o solo nella dimensione letteraria non è adeguato a cogliere la produttività del genere nell’antichità. Di base, certo, la favola antica mostrava di poter «servire a qualunque morale», ma ciò era l’esito della concezione che la fondava: l’idea di una natura umana vista come immutabile. Qui trova profondo senso la scelta di porre degli animali come protagonisti: non tanto perché rappresentino allegorie, quanto perché portatori di atteggiamenti immodificabili. Si è discusso se ciò configurasse un «pessimismo». La Penna crede, giustamente, di sì: «la favola esopica insegna a sopravvivere nel mondo della forza bruta, ma a sopravvivere adattandosi e rassegnandosi» (p. 255). Come si vede, non si è molto lontani dall’attitudine che i contemporanei hanno ingannevolmente chiamato «resilienza».

Nei saggi principali del libro sono impostate e discusse le interpretazioni generali, con ampia documentazione desunta dai testi: ampio e argomentato è anche il dialogo con la ricerca moderna, con le differenti fasi. Si incontra la questione, oggi meno urgente, delle radici orientali della favolistica greca, ricercate con sforzo tra India, Mesopotamia, Siria, con raffronti e suggestive ipotesi, ma si discute anche la lettura «strutturale» della favolistica antica, cui il filologo La Penna nega legittimità esegetica. Accanto a Esopo viene preso in considerazione anche il resto della ricca tradizione antica: Fedro, naturalmente, è in posizione di rilievo. Una voce «amara» che, qualunque fossero gli orizzonti reali dell’autore, i moderni non possono leggere senza il filtro degli scrittori morali di Roma (Lucrezio, Orazio, Seneca). A fronte dell’opacità dei dati biografici, risalta però la notevole autocoscienza di questo autore, interpretata come «la spinta a liberarsi, per la via della gloria, dalla propria vita oscura e penosa» (p. 194). La ragione della fortuna (anche scolastica) dei suoi testi, non sempre così edificanti, viene rintracciata nella «naturalezza» con la quale Fedro espone, in piano stile oraziano, una visione del mondo nella quale, per dirla ancora con Marchesi, «i potenti (sono) sempre prepotenti, gli umili sempre oppressi», sì che se ne potrebbe ricavare «una massima trista e giusta: non fate male a nessuno, fuor che a colui che vi ha fatto del male».

La favolistica antica ha lasciato imponente traccia attraverso il medioevo e oltre: ma non questa ricezione interessa a La Penna che, ripensando ai propri studi in anni recenti, ha ribadito l’interesse che il materialismo della cultura popolare antica mantiene per l’uomo moderno: dopo il tramonto delle utopie, al pari dell’antico schiavo egli si trova ancora a dover ritenere «immutabile l’ingiustizia della società» (p. 358).