Cultura

La paziente disciplina di Enzo Cucchi

La paziente disciplina di Enzo CucchiIl volo mediterraneo di Enzo Cucchi, 1997

Mostre Un'intervista con l'artista italiano. «Bienvenidos a Venezuela». Esposte a Milano alcune opere dell’artista italiano

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 25 giugno 2014

I semi gettati sul finire degli anni Sessanta nel «territorio magico» dell’arte da Achille Bonito Oliva, allora poeta che chiudeva il flirt con il Gruppo 63 per assumersi la carica di critico irrequieto e fecondo di idee, crebbero circa un decennio dopo nell’inizio folgorante dell’ultimo movimento artistico italiano di respiro internazionale: la Transavanguardia. Eppure nello stesso torno di anni, terreno di ardite sperimentazioni teoriche sui linguaggi sia dell’arte sia della critica (il rinnovamento partì proprio dalle parole da dare all’ordine del giorno, un po’ come avvenne per le avanguardie primo novecentesche), esplose anche e in anticipo temporale, il nondimeno dirompente sulla scena mondiale movimento dell’Arte Povera che ebbe tra i suoi principali teorici l’italiano Germano Celant.
Arte Povera e Transavanguardia furono gli estremi sussulti di un’Italia artistica che nei successivi trent’anni non ha avuto più la forza di costruire e attrezzare movimenti di tale portata, affidandosi solo a individualità di forte impatto mediatico e capacità comunicativa. Poco più di un paio di anni fa, Milano con un tempismo senza precedenti omaggiò sia l’Arte Povera sia la Transavanguardia con due mostre antologiche, che fecero molto discutere, ma che altrettanto segnarono «il punto su» i due movimenti. E Milano, oggi, diventa di nuovo ospitale per uno, il più poeta, il più ancorato alla letteratura, di quella «manita» di artisti che compose il nucleo della Transavanguardia: Enzo Cucchi, presente con un pugno di tele inedite e un paio di piccole sculture alla FL Gallery con «Bienvenidos a Venezuela» (via Circo 1, fino alla fine di giugno).
Un discorso su Cucchi pare comunque impossibile senza scomodare i suoi compagni di strada. Dunque, con lui, furono Nicola De Maria, Mimmo Paladino, Francesco Clemente e Sandro Chia, tutti provenienti da esperienze diverse, concettuali e persino geografiche (due esempi: la napoletanità di Paladino si estende anche ad un certo tipo di febbrile desiderio di «rinascenza» sociale e artistica con teatro, cinema, mostre, che contagiò la città del golfo negli anni novanta, mentre quella di Clemente s’apre all’orientalismo di matrice concettuale importata in Italia da artisti del calibro di Alighiero Boetti); e sempre tutti insieme seppero rendersi partecipi dell’intuizione di Achille Bonito Oliva dando così origine ad una creazione artistica che aveva la propria localizzazione in un terreno di transito linguistico da un’opera d’arte all’altra.
Gli strumenti, alti e bassi, poetici e realistici, venivano legati ad un gigantismo o un nanismo d’intenti secondo le forme dettate anche dall’economia. La vita come l’arte è stata presa come ostaggio di un meccanismo che Bonito-Oliva e i suoi cinque alfieri non hanno mai nascosto di essere anche antropologico come se la stessa arte fosse connessa ad un tessuto sociale vivente in continua evoluzione. Tutto ciò, nonostante le «distorsioni» della società. Quindi, restaurato un termine di quella stagione critica, che affannosamente si riversa ancora una volta controcorrente sull’attualità del nostro quotidiano, s’incontra Enzo Cucchi che così risponde su alcune questioni poste dalla sua opera.

La coerenza di forma e colore è stato sempre un antidoto alla ricerca di uno stile «buono per tutte le stagioni»; e al di là della tecnica, sono i materiali a dettare i gradi di intensità ed espressività delle sue opere?

Serve a difendermi dalla materia. Come è chiaro che faccio pittura, forse molto pericolosa, obsoleta all’interlocutore, ma che in realtà è qualcosa di speciale che amo forzare, consapevole che io sono il primo nemico di me stesso. Coerenza? Direi vizio assurdo, al di là del pregiudizio, di far pittura; mentre ora si ammicca; molti ragazzi fanno comunicazione: quadri con fotocopie, video di parenti, familiari, della nonna, quando invece bisogna avere voglia di studiare.

Dunque, sono gli stessi materiali a datare le sue opere o resta l’ atemporalità della visione la loro cifra esclusiva ed essenziale?

Credo che non ci sia possibile immaginare che poche cose. Soprattutto in quelle che conosco e così mi immergo in un tempo interno andandoci contro.

Non le pare che il dato geografico e storico delle sue opere sia stato trascurato a scapito anche di interessanti letture psiconalitiche-letterarie? Può costruire in modo borgesiano la sua mappa artistica ideale?

Bellini alla Pinacoteca di Brera! C’è già tutto! Ci sono tutti i passaggi formali dal punto vista immaginativo; la Madonna con il bambino dice, consiglia già dove guardare. I marchigiani come me: Licini con la sua grande intensità. E Scipione, lo guardo con il cuore illuminato. Già ci si emoziona solo con l’osservare in lontananza la puttana sul ponte, lì avverti lo stomaco di Roma.

Ha mai pensato al gesto pittorico come atto storico e politico?

Oggi è la pittura l’unico gesto politico. Il far vetrinismo non appartiene al mio modo di pensare l’arte. Ed è quasi impossibile mediare l’opera d’arte attraverso il linguaggio degli intellettuali: che non ci sono più, non hanno più voglia di scrivere; pochi, rari, sono quelli che non si sono sdraiati.

Spesso le sue mostre, come di altri, hanno avuto curatori che in qualche modo soprapponevano la loro immagine filosofica dell’opera d’arte all’opera medesima, considerandola una propaggine fisica del loro ego. Ritiene veritiero questo ritratto del curatore?

Sono croci che si devono portare. È di moda ora il il ready-made delle mostre, ma una cosa era quando c’era ad inventare Harald Seezman. Bisogna agire diversamente. Scrivere di arte come Arbasino, per esempio, che entra nel contesto; Parise agiva con un filo di ironia. Longhi era contemporaneo anche quando parlava di Tiziano.

Qual era e qual è ancor oggi il rapporto con gli altri artisti della Transavanguardia?

Non è cambiato niente. Ci conosciamo, ma il personale resta fuori. Il lavoro per certi versi no. Con Chia feci delle cose a quattro mani, qualche tempo fa.

Può dare una definizione negli anni dieci del XXI secolo della Transavanguardia?

Forse non c’è o non c’è mai stata una definizione che si racchiuda in un istante. Credo almeno da parte mia che ci sia molta più disciplina e pazienza.

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