Il campo di Gosto di Anna Luisa Pignatelli per Fazi (pp. 224, euro 17,50) è un libro raro nel panorama della narrativa italiana contemporanea: per l’ambientazione in un paesino della campagna Toscana, perché ha come protagonista un uomo anziano la cui esistenza non è stata particolarmente avventurosa o memorabile e infine per lo stile. Pignatelli scrive in una prosa equilibrata tra dialoghi e descrizioni, proponendo un lessico che ben si attaglia ai suoi personaggi.

Il suo obbiettivo sembra essere di raccontare come il male si dipani nelle minuzie della vita quotidiana di ognuno, anche delle persone più umili, ovunque. Il protagonista Gosto, però, all’interno di questo scenario di inevitabile miseria umana fa eccezione, perché il suo animo è lo stesso di coloro che considera degli eroi: «quelli che riuscivano a cavarsela con poco e a vedere quello che agli altri era invisibile: l’incanto di un campo punteggiato di olivi, lo scintillio del fiume tra le betulle e i pioppi, il gesto di qualcuno che si avvicina a te solo per sapere chi sei».

IN UN CONTESTO particolarmente gramo e asfittico come quello del paesino di campagna in cui Gosto abita, nel suo podere «alla Focaia», la sua umanità si staglia e non perché l’uomo compia chissà quale gesta, ma a causa della raffinatezza innata della sua anima. Agostino, detto Gosto, avrebbe dovuto continuare a studiare: amava leggere e per questo suo padre lo chiamava «lo storto». Quel soprannome che lui comprensibilmente odia se l’è sentito appioppare anche il giorno del colloquio col suo datore di lavoro, che oltre a dargli del buono a nulla gli ha ricordato con quale disprezzo lo trattasse suo padre e quale freddezza ci fosse ancora tra lui e suo fratello Giacomo.

«Parenti serpenti» è un’espressione che ritorna varie volte nel romanzo e che ben definisce in effetti l’esperienza di tutti i suoi personaggi. Anche la moglie Zelia lo ha allontanato, dopo anni di amarezza ha deciso di lasciarlo. A differenza di Gosto, Zelia ha sempre pensato che l’unico sentimento da nutrire nei confronti dell’umanità fosse la diffidenza totale. Il rapporto di Gosto con la figlia Mirella si connota ugualmente per un distacco colpevole. Pignatelli tratteggia un outsider: «a Gosto la vita degli altri non interessava. A lui bastava poter credere in alcuni di loro». Nel contesto dei borghi di campagna in cui è ambientato il libro in cui tutti e tutte non fanno che fare pettegolezzi sulle vite degli altri, travisando la realtà o alterandola di proposito per addossarsi colpe a vicenda, questa caratteristica di Gosto è sufficiente a posizionarlo lontano anni luce dall’ambiente in cui è nato e cresciuto e all’interno del quale, ovviamente, non solo non è riconosciuto, ma a un certo punto viene perseguitato. Poi c’è Stella, che con la sua spontaneità e voglia di vivere, con la sua fiducia nei confronti del prossimo, rappresenta l’illusione suprema della giovinezza, pronta a sgretolarsi di fronte palesarsi del «vero», come insegna Giacomo Leopardi. Ed è nella tradizione ottocentesca, quindi anche verista, che si inscrive questo romanzo di Anna Luisa Pignatelli.