Editoriale

La Palestina e i destini incrociati

La Palestina e i destini incrociatiObama ai funerali di Shimon Peres – LaPresse

Dopo i funerali Con Peres i destini incrociati del mondo, intanto la Palestina può attendere

Pubblicato circa 8 anni faEdizione del 1 ottobre 2016

«Il popolo ebraico non è destinato a occupare, a governare un altro popolo… abbiamo un’altra storia e tradizione come popoli, noi siamo nati contro lo schiavismo»: la frase di Barack Obama che pronunciava l’orazione funebre per l’ex presidente israliano Shimon Peres è precipitata come un macigno su una cerimonia ufficiale dove tutto era prestabilito. Certo qualcosa di dissonante da parte sua era atteso. È l’uomo che all’Università del Cairo nel 2009 concludendo l’appello ai giovani del mondo arabo confessava: «Sento in in cuor mio la disperazione del popolo palestinese, ancora senza terra e senza patria».

A sette anni di distanza il popolo palestinese resta non solo senza terra e senza patria, senza status e futuro, ma in una dimensione politica surreale e peggiorata rispetto al 2009. Resta un popolo di profughi dal 1948, anno della Nakba la cacciata dalle terre palestinesi, ha infatti anticipato nella storia la condizione attuale di milioni e milioni di esseri umani in fuga da guerre e miseria. Vive in campi profughi nella sua stessa terra, o da rifugiato malvisto in tutto il Medio Oriente. E ha subito da allora almeno altre due guerre sanguinose. Sei milioni di palestinesi vivono sotto occupazione militare dal conflitto del 1967, nonostante due Risoluzioni Onu impongano ad Israele di ritirarsi. E, mentre la Striscia di Gaza è chiusa in una prigione a cielo aperto, Israele non si ritira.

Dalla Cisgiordania, anzi estende le sue colonie a dismisura, ogni governo israeliano ha fatto così dagli anni Sessanta. Sono centinaia gli insediamenti colonici, ognuno controllato da presidi militari. Una miriade di colonie, una ragnatela così fitta che ha cancellato la continuità territoriale di un possibile Stato di Palestina. E come se non bastasse il popolo palestinese è racchiuso da un Muro voluto da Sharon, ma approvato da Peres. E sul quale il mondo tace.

Politicamente la situazione palestinese è quasi peggiore. Ieri tutti hanno apprezzato ai funerali di Shimon Peres il saluto tra Netanyahu e Abu Mazen. Ma il presidente dell’Anp è ormai ostaggio della Comunità internazionale, conta internamente sempre meno, sempre meno convincente per le promesse di pace mancate. E l’annuncio della cancellazione della data delle prossime elezioni palestinesi ha fatto sorgere il motivato sospetto del timore per una affermazione di Hamas anche in Cisgiordania.

Come avvenne nel 2006, quando vinse le elezioni non solo a Gaza, e da allora cominciò una rottura drammatica, molto indotta dall’esterno, tra Fatah e il movimento islamista che dura tuttora.

Senza dimenticare che la cerimonia è stata disertata da re Abdallah di Giordania e dal generale presidente egiziano Al Sisi, pur alleati di ferro di Israele ma timorosi delle rispettive opinioni pubbliche.
Resta da vedere quanto peserà il discorso di Obama, forse l’ultimo sulla questione israelo-palestinese. Per un presidente che a novembre uscirà di scena e che pur avendo annunciato di sentire il dolore dei palestinesi senza diritti e terra, in questi sette anni e con due mandati non ha fatto molto per migliorare quella condizione. Mentre lo schema interpretativo sui Territori occupati palestinesi resta quello ambiguo della «pace che viene dalla sicurezza»: era dello stesso Peres che, oltre ad avere avviato i primi piani di colonizzazione, ha trasformato Israele in una potenza nucleare speciale: ha l’atomica ma resta fuori da ogni controllo e Trattato internazionale.

Le proposte ripetute anche ieri da Netanyahu ricopiano la necessità della forza ma, naturalmente, «per raggiungere la pace». Del resto l’ultimo provvedimento di Obama, la consegna in questi giorni a Netanyhau di 38 miliardi di dollari in armi, va nella stessa direzione e per uno degli eserciti più potenti del Medio Oriente e del mondo. Siamo dentro l’algoritmo dell’occupazione militare «per fare la pace», da parte di uno Stato, Israele, che non ha confini istituzionali e rivendica la sua espansione. Aspettando Donald Trump, l’incendiario che vuole Gerusalemme capitale indivisa d’Israele – quando le Risoluzioni Onu ribadiscono che appartiene a due popoli e a tre religioni – oppure in attesa di Hillary Clinton che ha promesso a Netanyahu che la comunità internazioanle non deve intromettersi. La Palestina può attendere.
Ieri comunque ha dominato la serena memoria di Obama, quando ha ricordato che con Peres, «che ha incontrato dieci presidenti americani», parlava anche di Nelson Mandela, tra gli ispiratori del presidente statunitense. Chissà che diceva Shimon Peres di Mandela visto che i suoi governi israeliani sostenevano il regime bianco dell’apartheid che imprigionò il leader sudafricano fino 1994? Quel Mandela che fino all’ultimo sospiro ha urlato al mondo intero: «La nostra libertà è incompleta senza la libertà dei palestinesi».

Se, come ha ricordato il presidente americano, i destini di Obama e Peres si sono incrociati, qual è il destino del popolo palestinese?

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