La pace necessaria in un monumento
Giuliano De Felice, docente presso l’Università di Bari e redattore della rivista Archeostorie, concentra le sue ricerche sull’archeologia contemporanea, disciplina di crescente fortuna nel mondo anglosassone e sparute applicazioni in Italia, dove «la spettacolarizzazione dei beni culturali va di pari passo con l’onnipresente tradizione classicista e con quel senso di possesso del patrimonio antico dal quale quasi siamo ossessionati». Nel 2017, accompagnato nella Murgia interna dall’esperto di didattica della storia Antonio Brusa, fu sorpreso dalla muta potenza di una ferita impressa sul territorio dalla Seconda guerra mondiale: il Campo di prigionia 65. «Di certo non mi si mostrò bello; nemmeno ne compresi al primo ascolto la voce», racconta l’archeologo, autore del saggio Archeologia di un paesaggio contemporaneo (Edipuglia, 2020). «Mi bastò però un istante per desiderare di scavarci», aggiunge.
Di cosa parliamo quando parliamo di archeologia?
Non di una tecnica né di una metodologia, ma della forma mentale di chi vede le cose sovrapposte stratigraficamente. Anche se il Campo 65 appariva in degrado, tra copertoni e rifiuti di ogni tipo, da subito gli studenti si trovarono a proprio agio: i mattoni con i bolli laterizi e i graffiti sulle pareti delle baracche erano per loro segni familiari. Il sito si estende per trentuno ettari: la metà del parco di Pompei. Nel 1942, a metà strada tra Gravina e Altamura, che secondo il censimento del 1936 contavano ventimila abitanti l’una, nacque così dal nulla un centro di novemila persone: se avessimo riscontrato tale fenomeno in tempi antichi, saremmo sobbalzati chiamandolo poleogenesi.
Sull’area insistono altri elementi alieni…
Le Murge conservano anche i resti di dieci basi per testate atomiche, con missili a medio raggio puntati nel 1959 contro il Patto di Varsavia, e un campo di internamento della Prima guerra mondiale a Casale di Altamura. Qui, nel 1915, finirono quattromila soldati austro-ungarici: si era lontani dal pericoloso fronte della Guerra bianca, in un altopiano desertico eppure dotato di una buona rete ferroviaria. Quasi tutti sarebbero stati sterminati dall’influenza spagnola, secondini compresi, perché abbandonati a una feroce quarantena, travolti da una tragedia dalla cui narrazione dobbiamo strappare un deciso invito alla pace. L’archeologia della Murgia contemporanea è estranea alla bellezza e allo stupore, altrove veicolo di valori identitari.
Chi fu rinchiuso nel Campo 65?
Inizialmente gli alleati del Commonwealth catturati in Africa tra il 1941 e il 1942: britannici, canadesi, australiani, neozelandesi, sudafricani, indiani. Quindi prigionieri politici, ebrei, omosessuali. Infine i profughi italiani che rientravano dall’Africa e dai Balcani. Dopo l’8 settembre arrivarono anche gli ebrei, che presto iniziarono a imbarcarsi per la Palestina. Ultimi furono gli jugoslavi, soprattutto titini, molti dei quali scelsero di restare per essere addestrati e organizzare la liberazione della Jugoslavia, che avrebbero raggiunto inquadrati nelle Brigate oltremare. Di questa brevissima fase restano numerosi graffiti in un’aula di addestramento, dove abbiamo trovato cartine geografiche della Bielorussia e dell’Ucraina. Fa impressione, sopra l’arco di una baracca che precedentemente aveva accolto prigionieri inglesi, leggere in serbocroato «Morte al fascismo e libertà ai popoli», al lato della raffigurazione di due cani che calpestano bandiere con i simboli della svastica e del fascio littorio.
Cosa successe dopo la Liberazione?
Il campo fu riallestito tra il 1952 e il 1962 per ospitare il Centro raccolta profughi giuliano-dalmata. Al suo interno è nato tra gli altri Meo Sacchetti, l’allenatore della nazionale di basket, che ci ha donato fotografie degne di un film neorealista, con panni stesi tra le torrette di sorveglianza e giochi di bambini sullo sfondo del filo spinato. Andati via gli italiani tornati dall’Africa, il campo tornò centro di addestramento, continuando a produrre archeologia. Le pareti delle due baracche superstiti sono piene di firme apposte secondo una ripetitiva e angosciante modalità: nome, cognome, città di provenienza, data. Talvolta compare la formula finale «meno… giorni all’alba», seguita dall’icona del sole che sorge tra le colline.
Gli scavi hanno permesso di ricostruire la pianta del campo?
Adesso sappiamo che nel 1942 furono realizzate cento baracche: venti per alloggiare le truppe e gli ufficiali; ottanta nell’effettiva zona di detenzione, circondata dal filo spinato. Ognuna misurava settecento metri quadrati. Come uno spettro, sostenuta all’apparenza da enormi e scheletrici alberi, spicca ancora nel nulla della Murgia interna la palazzina del comando, annunciata da una fontana monumentale con delfini più adatta alla scenografia di un film di viaggio interstellare. Dalle foto aeree, inoltre, si intuisce davanti alla vasca l’ombra di un giardino all’italiana, improbabile delizia delle autorità. Resistono pure le torri di sorveglianza, distanti mezzo chilometro l’una dall’altra, e tre baracche: due dormitori, dei sessantasei originari, e una delle otto cucine.
E tutto il resto?
Nel 1990, l’anno dei Mondiali di calcio, in appena due settimane il campo fu smantellato dalle ruspe in occasione della costruzione della nuova statale. Quelle che sembrano rocce lungo il terrapieno alla base della statale, sono in realtà parti in cemento delle baracche mancanti. Non è stato indolore per i cittadini salvare l’anima del luogo. Il merito principale va all’Associazione Campo 65, che tramite i social ha saputo mettersi in contatto con profughi tuttora in vita e discendenti di chi vi ha vissuto, creando una spontanea comunità di patrimonio secondo la visione della Convenzione di Faro, finalmente approvata in Italia.
Cos’è, quindi, un monumento?
Il suo significato va cercato nelle relazioni tra le persone. In questo senso, è stata la comunità di Altamura a riconoscere il Campo 65 come proprio patrimonio. Ritengo fondamentale ribadire la sua storicità: si tratta di un luogo che, nella sua materialità, si configura come sito archeologico. Del resto tenere il filo della memoria della Seconda guerra mondiale, per le nuove generazioni, è forse impossibile, se non altro a causa di una distanza temporale che ormai lo sfibra. Non è un caso se il perseverare sul concetto poco laico di memoria, che nasconde in sé un fondo di coercizione, determina spesso un solo risultato certo: la risorgenza di presunte memorie alternative. È la storia, con la sua analisi sul costo degli ottant’anni di pace alle nostre spalle, l’unico antidoto assicurato per contrastare la violenza. Difficile negarlo: l’archeologia del Novecento è principalmente un racconto documentato di conflitti. A Hiroshima, dopo qualche secondo, diradatosi il fumo, i soldati americani hanno soltanto potuto osservare strati archeologici creati dalla forza distruttrice dell’uomo. Della geologia, non restava più traccia.
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