Enrico Berlinguer. La pace al primo posto. Scritti e discorsi di politica internazionale (1972-1984) (Donzelli, pp. 368, euro 28,50). Confesso che quando ho visto questo grosso volume in cui Alexander Hoebel ha raccolto in occasione del centenario del più amato leader comunista una gran quantità di suoi scritti, discorsi, interviste, pur essendo sempre interessata alle eccellenti opere di questo storico, non sono stata presa dall’ansia di leggere. Queste pagine mi sembrava di averle tutte già lette e rilette, e soprattutto vissute, nel senso che in quegli anni l’argomento è stato centrale e Berlinguer vi aveva avuto in merito un ruolo molto importante. Che io avevo ben colto, essendovi stata io stessa molto coinvolta, perlomeno a partire dall’80, per esser stata, insieme a Ken Coats – presidente della Fondazione Bertrand Russell – coordinatrice del movimento pacifista europeo in quel decennio diventato molto forte e radicato in tutti i paesi del continente, sia dell’ovest che dell’est, poco amato sia dalla Nato che dal Patto di Varsavia, che non a caso ci bollavano da una parte come agenti del Kgb, dall’altro della Cia. Per la semplice ragione che chiedevamo non venissero installati missili né di qua né di là.
Poi ho cominciato a leggere, e non ho più smesso, perché – dico la verità – parecchi di questi scritti non li conoscevo, o forse non li ricordavo più con precisione (specie le interviste, ma anche i discorsi parlamentari). Vale comunque la pena di rileggerli, perchè la problematica che affrontano è tornata ad essere importantissima con questa guerra che alla fine è purtroppo scoppiata. Non solo per via dell’Ucraina.

OLTRE ALLA QUESTIONE riarmo Berlinguer insiste molto su un tema diventato oggi ancor più centrale, e alla pace strettamente connesso. E cioè la lucidissima presa di coscienza di esser arrivati, proprio all’inizio dei ’70, in occasione della prima crisi petrolifera e con tutte le conseguenze che questa innescò, ad una crisi ben più profonda e generale: quella del capitalismo. Giunto – scrive Berlinguer – a un punto in cui «non sa più come uscire dalle sue contraddizioni», provocate dall’impossibilità di estendere all’infinito la produzione di merci ( e dunque di estendersi a tutto il globo); così come di proseguire sulla sua linea «riformista», visto che già ora la politica del welfare «è giunta alle colonne d’Ercole». E che comunque appare chiaro che tutti questi problemi rischiano di produrre nuove guerre suscitate dalla redistribuzione dei rapporti di forza nel mondo. La nostra insistenza – dice ancora – sulla necessità di una politica di austerità, non consiste nel chiedere la riduzione della spesa pubblica, ma perché potrebbe diventare «occasione per cambiare modello di sviluppo e porre le basi per il superamento del capitalismo».
Un tema, questo, su cui torna in molti scritti, collegandolo anche a una rilettura del Marx degli «scritti del ’44» e dell’Ideologia tedesca, proprio gli stessi su cui oggi insistiamo nella battaglia per far capire che la decrescita non è ritorno alla miseria ma un altro modello di felicità, non più fondato sull’accrescimento del Pil. Magari ci fosse nella attuale leadership della sinistra analoga consapevolezza!

MOTIVO DI RIFLESSIONE sono anche le pagine in cui si parla di problemi più immediatamente politici, perché oggi, a più di 40 anni di distanza, possiamo renderci conto anche più di allora di come sia stato grave che alle sue proposte non sia stata data la giusta attenzione, non solo dalle altre forze politiche (penso soprattutto all’allora imperante craxismo ma anche – diciamo la verità – allo scarso entusiasmo che suscitavano nello stesso gruppo dirigente del Pci). Penso ai suoi tentativi di dar vita alla famosa «terza via», che non era certo quella un po’ imbrogliona, pur ugualmente denominata, di Blair, a metà strada fra capitalismo e socialismo, ma l’idea di un’Europa fuori dai blocchi militari e capace, per ciò stesso, di coinvolgere positivamente l’Urss in un rapporto reciprocamente profiquo. Un progetto che sarebbe divenuto ancora più facile e necessario pochi anni dopo, con l’avvento di Gorbachov e la caduta del Muro. Anche perché c’era stato allora un significativo spostamento a sinistra della socialdemocrazia europea che rendeva l’obiettivo realistico.

Bene dunque la selezione dei testi compiuta da Hoebel. E però un’osservazione critica, che non riguarda lui nel merito, ma perché nella sua presentazione non vi fa cenno. Sebbene si tratti di un vizio purtroppo tipico del Pci, costatogli politicamente caro: l’autoreferenzialismo. È possibile infatti che anche in questi pur bellissimi scritti di Berlinguer solo una volta, di sfuggita e senza aver approfondito, e dunque capito il significato, pur parlando della lotta per la pace non si sottolinei il ruolo che ebbe in quegli anni il movimento pacifista? Innanzitutto anche per l’Europa: ad oggi si tratta del primo e purtroppo solo movimento realmente europeo, nel senso di nato e radicato nella società civile. Lo slogan che Berlinguer ripete più volte – tanto per fare un esempio – «per un’Europa senza missili dall’Atlantico agli Urali» – è stata la denominazione del nostro movimento dopo esser stata originariamente quella del pacifismo britannico. E quanto all’Italia è certo vero che la Fgci svolse in quel movimento un ruolo importante ma esso nacque da uno schieramento molto più largo e diversificato, anche perché la leadership del Pci impose molti ostacoli (a me meno perché allora non ero in quel partito, ma ad altri sì. E penso in particolare a Tom Benetollo) perché il partito era sospettoso come sempre verso i movimenti, per via della loro autonomia. Quel che del resto avvenne anche con il ’68, e il Pci lo pagò caro. Sono comunque molto contenta di aver potuto leggere o rileggere questi scritti di Berlinguer perché sono molto più consonanti – soprattutto nella percezione della crisi di sistema che stavamo, e oggi stiamo ancor più gravemente vivendo, con quanto abbiamo allora scritto sulle nostre riviste, quelle del Manifesto e in particolare quella promossa dal Pdup, Pace e guerra, che diressi con Stefano Rodotà.

UNA VICINANZA che ci fa capire meglio il senso di quella straordinaria iniziativa di Enrico: venire al nostro Congresso, a Milano nel 1984, e dopo aver ascoltato, andare da Lucio, che ne era segretario, e chiedergli di rientrare nel Pci. Cosa che facemmo, ma che purtroppo non ebbe conseguenze di lungo periodo perché pochissimo dopo Berlinguer morì e dopo pochissimi anni, morì anche il Pci.