La notte profonda della nostra storia
Filmmaker Con «Pays Barbare», Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi proseguono il lavoro di studio e analisi degli archivi e delle tracce violente lasciate nel '900
Filmmaker Con «Pays Barbare», Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi proseguono il lavoro di studio e analisi degli archivi e delle tracce violente lasciate nel '900
Dopo essere stato presentato in concorso al Festival di Locarno, dopo essere approdato nelle sale di numerose capitali europee (Berlino, Parigi, Vienna, Londra, Lisbona) Pays Barbar
Prodotto dalla francese Les Films d’ici (porte chiuse, per loro, qui in Italia), Pays Barbare continua e prolunga il discorso che fin dai tardi anni ’70 i nostri due artisti/filmmaker portano avanti: è un lavoro di scandaglio, studio, e di analisi critica (via camera analitica) degli archivi e delle tracce violente lasciate dal ’900. Pensato come ricognizione europea di totalitarismi, ideologie della razza, limpidezza del sangue, pulizia etnica, commercio, fanatismi ideologici, religione e capitalismo, «scoperte» di territori stranieri («Sono le storie del ‘900. Accadevano in parallelo un po’ ovunque», mi diceva tempo fa Angela Ricci Lucchi – quando il titolo del film era preso da Osip Mandel’štam: Secolo-Cane-Lupo), il progetto si è col tempo modificato, lasciando però inalterata l’incandescenza della proposizione di fondo, legata al caso italiano. Che cosa diventa l’uomo, l’italiano che esce dalla Prima Guerra Mondiale ( e dalla loro «Trilogia della Guerra»)? Pays Barbare è la risposta a questa domanda.
E la risposta, come in un flash forward, la vediamo esposta fin dall’inizio del film: 29 aprile 1945. Milano. Piazzale Loreto. La massa di corpi assiepata dentro l’inquadratura è lì per vedere il corpo del duce. Immagini inedite. I due le hanno ritrovate in un laboratorio cinematografico milanese ormai in disuso, molti anni fa, gestito dal nipote di Paolo Granata, il primo operatore di Luca Comerio durante la prima Guerra Mondiale, poi operatore di spicco dell’Istituto Luce fascista. Anche il nipote era un operatore. È possibile che le immagini di piazzale Loreto, ritrovate da Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, le abbia girate lui? Sono tra le poche immagini che non vennero confiscate dagli americani. Erano contenute in una scatola metallica ricoperta di carta velina ingiallita. 80 metri di film, intatti, senza una rigatura, dunque mai visti. I primi dieci minuti del film ci mostrano parte di questo materiale. Nessun suono accompagna i fotogrammi. Eppure le immagini parlano: ci sembra di sentire la folla, il brusio, le grida, una specie di cacofonia diffusa, quasi assordante. Il fotogramma è stato diviso in sei parti, come in una griglia. Ogni sezione è stata ri-filmata e rallentata, a volte fotogramma per fotogramma. È come un’onda, quella folla. Si muove, danza, si sposta. Migliaia di microeventi si producono nello stesso istante. Impossibile notarli tutti. Il brulichio impedisce di fissarsi su un singolo elemento. Anche il nostro sguardo si muove all’interno del quadro. C’è una rivoltella che sbuca sul lato sinistro dell’inquadratura. Canne di fucili. Gli sguardi in macchina della folla. E i corpi di Mussolini, di Claretta Petacci. Dunque? Bastava leggere la didascalia che anticipava queste immagini: «Dopo essere stato all’origine di tanti massacri senza immagine, le ultime sue immagini sono quelle del suo massacro». Sono frasi scritte da Italo Calvino in alcune pagine autobiografiche, e ben riassumono la questione. Perché il resto del film infatti non è altro che un balzo temporale all’indietro, nel tentativo di fare i conti con quei massacri, mai mostrati. L’attenzione si sposta dunque sul decennio 1922-1936.
Brame di conquista in terra libica. E poi Abissinia, Etiopia (1935-1936). Colonialismo diffuso. Mire napoleoniche. Ci sono le immagini di Mussolini ripreso nel 1926, ferito al naso dopo un attentato, in una parata in Libia. I suoi gesti. Le truppe, le scelte strategiche (fucilazioni, decimazione della popolazione civile, guerra feroce insomma, senza quartiere). C’è l’alta borghesia italiana in viaggio verso l’Africa: medici, industriali, preti, suore, avvocati. E poi lettere di fidanzate ai soldati. Agghiaccianti sfilate carnevalesche in Italia: ci si traveste da arabi o da neri. Ci sono le bombe all’iprite, il cui utilizzo è sempre stato negato. E Addis Abeba vista dall’alto. Il territorio africano visto da un aeroplano. Studio del territorio? Studio dei siti su cui sganciare le bombe? I materiali filmici sono disparati, eterogenei: 35mm, 16mm ma anche formati ridotti: 9,5. Materiali di regime, film privati. E so
Inquietudine. In due momenti distinti, due sguardi in macchina ci sono rivolti da un ragazzino libico e da una donna etiope. Nel primo, il ragazzino si volta e ci osserva (osserva colui che filma) mentre gli italiani sbarcano. Il secondo ci viene mostrato due volte. Con una specie di sottolineatura. Addis Abeba: una donna cammina. Porta un bimbo infagottato sulla schiena, un secondo è accoccolato in una borsa. Incrocia un militare che si gira, l’osserva e la dileggia. Lei avanza e sembra rivolgersi a colui che filma. Si stabilisce insomma una strana catena di sguardi che giunge fino a noi.
Cos’è quello sguardo? Un’interpellazione? Piuttosto un’apostrofe muta. Qualcosa su cui aveva riflettuto Jean-Christophe Bailly in un libro dedicato ai ritratti del Fayum (L’apostrofe muta, Quodlibet, 1998). Quegli sguardi sono una soglia, un passaggio: «I volti vengono a noi così, talmente al limite, talmente sulla soglia da essere al tempo stesso da una parte e dall’altra: già nella morte e ancora nella vita». Mi viene da pensare che Yervant e Angela lavorino da sempre su questa soglia. Queste esistenze colloidali ci riguardano. Quell’apostrofe, quello sguardo in macchina, sembra dirci: e tu? E voi? «Siamo immersi in una notte profonda, non sappiamo dove stiamo andando. E voi?» ci dice Angela Ricci Lucchi nel nero che chiude questo film non riconciliato, quasi agit-prop.
E noi?
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