Giorgio Fabre è uno storico che si fa guidare nel suo lavoro da una grande passione civile e politica e dalla libertà di chi non ha vincoli o compensi di alcun genere. Non libero però dalle regole del mestiere nell’accertamento del vero, anzi così dominato dallo scrupolo filologico nella ricerca della verità che spesso lo vediamo sostare davanti all’interpretazione delle fonti e mettere in guardia il suo lettore coinvolgendolo in una specie di preventiva autocritica. Esploratore attento e sagace, sa muoversi con straordinaria padronanza tra i depositi dell’archivio centrale dello Stato, quelli dei Ministeri e quelli della stampa periodica, come mostra il suo nuovo volume: Il gran consiglio contro gli ebrei 6-7 ottobre 1938: Mussolini, Balbo e il regime (il Mulino «Critica storica», pp. 320, euro 26,00). I lettori che lo seguono hanno qui davanti una nuova prova di come la sua ricerca faccia fare passi avanti nella conoscenza di temi e problemi della società e della politica italiana di età contemporanea.
Quella della svolta razzista del regime fascista e delle sue premesse nella carriera del «duce» e nelle logiche dell’alleanza con la Chiesa e la monarchia, non è certo una questione da poco in un paese che non ha avuto nessun tribunale di Norimberga e ha potuto uscire dal fascismo e dalla tragedia della guerra senza una vera resa dei conti – del che facciamo oggi esperienza quotidiana. Su questo terreno le ricerche di Giorgio Fabre hanno portato a modificare sostanzialmente lo stato delle conoscenze. Si pensi a come nel libro Il registro (2018), scritto con Annalisa Capristo, ha fatto uscire dall’ombra la gran folla di vittime ignote e dimenticate delle leggi razziali mentre fino ad allora l’attenzione degli studi si era concentrata quasi soltanto sull’élite dei docenti universitari.
Questa volta uno di quelli che si sogliono definire fortunati ritrovamenti d’archivio – in realtà, il premio della pertinacia e della sagacia del ricercatore – gli ha messo a disposizione il dossier della «Dichiarazione sulla razza» che Mussolini redasse e fece ciclostilare per sottoporlo ai membri del Gran Consiglio del fascismo. Cosa che avvenne in un incontro notturno iniziato alle 10 di sera del 6 ottobre 1938 e durato tutta la notte. La vicenda era nota, Renzo De Felice l’aveva studiata fin dal 1961. Ma quello che Fabre ha scoperto e usato è un dossier completo di quel dibattito notturno. L’uso che ne ha fatto si rivela qui attento e acuto. Si capisce dalle sue pagine come la questione si presentasse agli occhi di Mussolini in una fase avanzata della campagna antiebraica ma di ancor grande incertezza sui suoi possibili esiti. C’era un rischio personale che il capo correva e da cui voleva mettersi al sicuro. Questo incontro notturno fu l’occasione scelta da lui per chiarirsi personalmente le idee. L’occasione fu creata da lui per trovare la saldatura con l’organo supremo del partito, cioè con i capi che attraverso i loro quotidiani orientavano l’opinione collettiva. Questa è l’ipotesi di partenza che Fabre verifica e conferma attraverso l’analisi del modo in cui il ciclostilato fu corretto e modificato da Mussolini ascoltando le opinioni dei suoi interlocutori.
La fonte si rivela agli occhi dello storico con una imprevedibile ricchezza di tracce che la rendono quasi una viva registrazione di quel dibattito notturno e degli esiti successivi. Sono tracce minime quelle che gli parlano, segni appena percettibili dello spostamento o dell’eliminazione di una parola, esiti di un lavorio che doveva continuare non solo fino al mattino, nell’immediatezza dell’invio del testo al giornale ufficiale del partito ma anche in seguito.
Su tutte le questioni di dettaglio discusse in quella notte Mussolini si mostrò duttile e attento a capire, cedevole e capace di aggiustare il tiro. E tuttavia bastò una supplica rivolta a donna Rachele dalla moglie italiana del medico ebreo rumeno Amerigo Nugel per fargli cambiare i termini già fissati per la legge È un tratto sempre riconoscibile in lui, quello della volontà del capo di dimostrare il suo potere personale al di sopra della legge.
Quanto al testo che aveva preparato, Mussolini voleva impadronirsene, farselo suo. E questo si avverte nel modo in cui procede ritoccandolo continuamente, definendone le sfumature, aggiustando ogni avverbio o aggettivo. L’analisi di Giorgio Fabre è attentissima nel seguire le diverse ipotesi di applicazione della legislazione razziale. Qui vale la pena di segnalare almeno la sua osservazione sulla scoperta fondamentale che Mussolini fece proprio nel corso di quella notte. Era partito dal problema di come definire che cosa fossero gli ebrei italiani. Una realtà di fatto complicata e difficile da ridurre in misure di legge. Ma poi scoprì che il problema della realtà di fatto lo si poteva aggirare spostando il punto di vista. Bastava pensare a come l’ebreo potesse essere considerato. «Col “considerato”, – nota Fabre – l’inquadramento e la definizione “razziale” (ovvero biologica e insieme “culturale”) sarebbero stati discrezionali». Per questa via si poterono definire problemi complicati come quelli dei figli diretti di matrimonio misto, se e quando dovessero essere considerati ebrei. E qui si rivela la differenza della strada battuta dal fascismo rispetto alle leggi di Norimberga di cui Mussolini poté avere notizia. Nella Germania nazista l’arianità e l’ebraicità erano caratteri incancellabili di razza. Tanto che per snidare l’ebreo si risaliva fino ai nonni. Non così nel caso italiano e fascista, almeno a questa data. L’esistenza di una «pura razza ariana italiana» dipendeva da caratteri non di sangue ma di evoluzione storica e culturale collettiva. E per Mussolini era il riconoscimento del successo della trasformazione operata dal suo regime fascista con la strategia di educazione e di irreggimentazione dei giovani finalizzata a creare, come dicevano le canzoni fasciste, una «gente forte».
Dunque anche per discriminare gli ebrei, cioè per ammetterli a restare come italiani, si poteva giocare liberamente nella scelta di tempi e misure. Ed era nel rapporto con le simpatie e i vincoli dei membri del Gran Consiglio con questa o quella loro provincia di potere (la Libia di Balbo, le Forze Armate – ancora Balbo, De Bono, Federzoni) che bisognava trattare. Senza dimenticare la Chiesa, con un papato inquieto per la questione dei matrimoni misti. Ma tra le cose che Mussolini imparò in quella notte resta eminente quella del passaggio dalla realtà dell’ebreo alla sua possibilità di venire definito tale. L’idealismo gentiliano aveva insegnato qualcosa, consegnando al potere politico fascista la possibilità di giocare come voleva con le sue categorie di definizione dell’ebraicità.
E intanto in quella discussione notturna si poté scoprire che qualcuno si era portato avanti col lavoro. Il ministro dell’educazione nazionale Giuseppe Bottai vi giunse reduce dall’aver preparato scuole e università a una riapertura senza ebrei. Il re aveva firmato il decreto nel settembre mentre godeva le vacanze a San Rossore. Così l’inizio dei corsi iniziò con l’esperienza collettiva dei banchi vuoti e delle cattedre cancellate.
Ci fu chi scomparve senza lasciare traccia, come la professoressa Enrica Calabresi, docente di zoologia. Era diventata libera docente per il valore delle sue scoperte e aveva ottenuto di tenere un corso alla Università di Firenze, poi sottrattole per una prepotenza baronale. Scomparve ritirandosi nel silenzio e nella solitudine. Quando vennero ad arrestarla per portarla ad Auschwitz, era pronta: una fialetta di veleno le dette la libertà.
Solo in tempi recenti la sua vicenda è stata ricostruita. Da allora il ricordo è diventato diffuso nelle città dove visse, dalla Ferrara dov’era nata a Firenze e a Pisa. Il suo nome si lega a diverse strade e anche a un albero fiorentino di gimko biloba. Segno di tempi diversi. Forse migliori? Fermiamoci a «diversi». L’anno scorso, il 14 febbraio 2022, un’opera dedicata alla sua memoria dall’artista Giovanni Bonfiglioli, è stata vandalizzata da ignoti.