La nostra nuova immortalità
L'intervento Abbiamo sostituito alla cura individuale una medicina che si occupa del corpo sociale
L'intervento Abbiamo sostituito alla cura individuale una medicina che si occupa del corpo sociale
Siamo tornati per le strade, ma con le mascherine. Al lavoro, ma col cosiddetto distanziamento sociale, e a volte senza. Siamo preoccupati ma anche ignari. La morte è nel paesaggio, eppure assente.
Se il rischio della morte non è più una bussola capace di orientarci, dobbiamo forse chiederci perché. E allora iniziamo a vedere qualcosa. Iniziamo a vedere che la morte non è mai stata un dato di fatto, è sempre stata una costruzione. Faceva corpo con un certo insieme di premesse, e cambiate le premesse, è cambiata anche la sua funzione, è sfumata la sua capacità di orientamento.
In fondo, la funzione della morte era quella di offrire un punto di vista sulle nostre vite. Un animale parlante ha avuto la ventura di nominare le cose che incontra nel mondo. Nominando le cose ha potuto sperimentarne l’impermanenza, per contrasto con la permanenza del loro nome. E a un certo punto ha potuto guardare anche se stesso come una cosa tra le altre cose, come una cosa che si assenterà a fronte di quel nome che resterà presente. Il mio corpo diventa così per la prima volta una cosa, una proprietà individuale, un bene privato. Homo oeconomicus nasce da questo sguardo del nome e della morte sulla vita.
La pandemia ci indotti a sostituire alla medicina come cura dei corpi di ciascuno una medicina che è cura di quel grande corpo fatto di corpi che è il corpo sociale. Il primo annuncio di questa trasformazione è vecchio di qualche secolo. Nel corso del Settecento, ha mostrato Michel Foucault, certi saperi, come la statistica, la demografia, l’epidemiologia, iniziano a disegnare sotto i nostri occhi qualcosa come un nuovo genere di corpo. Il caso delle vaccinazioni, qualche decennio più tardi, diventerà assolutamente esemplare di questo mutamento. Dal punto di vista individuale, vaccinarsi è una cosa buona, non ottima. Potrei benissimo non entrare mai in contatto con l’agente patogeno. Le cose cambiano solo se guardo la situazione da una prospettiva più che individuale. Se tutti sono vaccinati, l’intero corpo sociale vivrà meglio. E anch’io.
È questo punto di vista insiemistico, che tratta i singoli corpi come fibre di un organismo più vasto, a costruire quel nuovo artefatto che la medicina dovrà curare. Il passaggio non avviene senza conflitti, naturalmente. Pensiamo a quando lo sfortunato Boris Johnson ha invocato l’immunità di gregge, restando travolto, oltre che dalla sua personale malattia, dal dissenso di una società ancora abbastanza individualista da trovare irricevibile la sua proposta. A pochi mesi di distanza assistiamo a uno strano capovolgimento. Quello che sembrava irricevibile è diventato moneta corrente. Johnson pensava per corpi collettivi pur venendo da una tradizione che dice: non esiste la società, esistono solo gli individui. Oggi vediamo ovunque individui che agiscono in base a una massima che dice tutt’altro: non esistono gli individui, esiste solo la società.
Qual è il segreto dell’evidenza di questa vita impersonale? Che cosa fa sì che pur soffrendo per la morte dei singoli, quella vita impersonale che si è installata in ciascuno di noi si senta legittimata ad andare avanti ad ogni costo? Qui l’indagine è tutta da fare. Ma un primo indizio sta nel fatto che i saperi di cui sopra, come la demografia, l’epidemiolgia, non ragionano mai caso per caso, non si interessano mai di singoli oggetti. Procedono per grandi numeri, assumono che il loro oggetto sia un insieme. Ne studiano i comportamenti prevalenti, le probabili evoluzioni. Sono accomunati da una nuova lingua, che non ha il suo operatore decisivo nel nome ma nel numero. È per questa via che il corpo diventa un corpo collettivo, e il corpo collettivo un’equazione, un fascio di fluttuazioni statistiche. Noi stessi diventiamo più o meno sensibili a questa nostra nuova realtà. Diventiamo soggetti probabilistici.
Fluttuazione significa per esempio che quel corpo collettivo non vive propriamente e non muore propriamente. Non guarisce e non si ammala. Non si installa mai, cioè, in quegli estremi di presenza o assenza, la cui dialettica è il frutto più puro della logica del nome. La logica della fluttuazione prevede piuttosto l’intensificarsi o l’affievolirsi di un’unica condizione intermedia. Non si tratta mai, per quei nuovi saperi che la pandemia ha incoronato, di sanare la malattia. Si tratta di trattenerla entro certi parametri, di accompagnarne dolcemente la crescita o la decrescita. Così, il grande corpo collettivo non è mai sano né malato, ma sempre immerso, e noi con lui, in un male cronico che è anche un’enigmatica promessa di immortalità.
*Filosofo e coordinatore scientifico di KUM! Festival
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