Principe Libero, come il pirata Samuel Bellamy nell’epigrafe de Le nuvole, è il titolo del film prodotto dalla Rai nel 2018 su Fabrizio De André. “Non desideravamo scrivere un film biografico”, mi spiegano gli sceneggiatori Francesca Serafini e Giordano Meacci (autori anche di Non essere cattivo di Claudio Caligari), “ma comporre la nostra canzone per un’icona assoluta del secondo Novecento, insieme a Pasolini. È tutto inventato ma inventato dal vero”. Marinelli non imita ma interpreta. Secondo Dori Ghezzi: “Questo è un film in cui chi ha conosciuto Fabrizio molto probabilmente lo ritroverà, chi invece se l’è immaginato potrebbe sentirsi tradito”.

Potete raccontarmi la genesi del progetto?

F.S. La sceneggiatura definitiva era pronta da circa 5 anni, la Rai la teneva in un cassetto. Quando il regista Luca Facchini mi accenna l’idea di fare un film su De André, non sa che io e Giordano abbiamo un rapporto antico con Fabrizio. Nel 1992, da allievi di Serianni, scriviamo il saggio “La lingua cantata” sulla lingua delle canzoni popolari. De André apprezza il nostro lavoro e ci vuole incontrare. Nasce così uno scambio e Fabrizio decide di regalarci un testo come postfazione del libro; una sorta di lettera d’amore a Dori che scrive raccontando come nelle sue canzoni trasformi a fini artistici le persone che incontra e che gli ispirano qualcosa.

Per questo motivo Fabrizio non aveva mai voluto cantare Dori, perché andava bene così com’era e non poteva essere mistificata.

Luca prende coraggio e organizza un incontro con Ghezzi che non sa dei nostri incontri con Fabrizio e soprattutto non ha mai letto quel testo che noi portiamo come biglietto da visita. Nasce subito un’affinità umana.

Nel film abbiamo tentato di mettere in scena quello che Fabrizio ci aveva detto delle sue canzoni: “io prendo spunto dalla realtà ma poi la trasformo, altrimenti mi sarebbe servita tutt’al più per un articolo di cronaca”. Allo stesso modo abbiamo preso la sua biografia non per fare un documentario ma per dedicargli la nostra canzone. In questa lotta continua del protagonista contro ogni forma di libertà negata speriamo che ognuno, al di là del suo amore e della sua conoscenza di Fabrizio e delle sue canzoni, possa ritrovarsi.

Quale criterio avete adottato per strutturare la narrazione?

G.M. Abbiamo raccontato il prima e il dopo delle canzoni, ci sono le tracce e le atmosfere che hanno portato a scriverle, lo spirito anarchico, l’ironia disincantata e l’amore di Fabrizio per l’umanità nelle sue debolezze. Non volevamo nessuna forma di didascalismo. Il deandreano fanatico e filologo come noi sicuramente troverà in alcuni dialoghi sparsi una traccia nascosta delle canzoni. Questo è un universo strambo in cui Fabrizio ha la voce di Luca Marinelli, Dori ha gli occhi scuri di Valentina Bellé e Villaggio incarna tutti gli amici che hanno vissuto con Fabrizio quella vita di gioiosa cialtroneria. Di ogni singolo aspetto non volevamo dare un traccia biografica reale perché avrebbe pregiudicato la verità finta del film. Desideravamo entrare in un altro universo e raccontare il nostro Fabrizio affinché accadesse quello che sostiene Hemingway, cioè che se si trova qualcosa in quello che si legge è perché ce lo avevamo già dentro. Siccome tutti gli spettatori hanno il proprio De André, l’errore sarebbe stato crearne uno assoluto. Quando è arrivato Marinelli il cerchio si è chiuso; Dori dice sempre “aspettavamo lui”.

Avevate mai sceneggiato la storia di un personaggio realmente esistito?

F.S. No e questo ha comportato un interlocutore d’eccezione come Dori, che ha seguito ogni passaggio ed ha condiviso le scelte drammaturgiche. Il soggetto e la sceneggiatura sono stati discussi e rivissuti insieme a lei. Nella scrittura non ha cambiato nulla perché il rispetto dei personaggi inventati è lo stesso che abbiamo di un personaggio vero. Quando siamo al tavolo di lavoro, io e Giordano abbiamo delle discussioni incredibili fino a quando non raggiungiamo su ogni punto l’idea che ci persuade totalmente, non cerchiamo compromessi tra di noi. Questo è l’unico metodo che abbiamo messo a punto ed è molto faticoso perché non ci facciamo sconti. La fiammata, l’intuizione, la battuta più riuscita, quello è un guizzo che non puoi prevedere ma puoi creare una situazione favorevole con il metodo e il rigore.

“Mussica” è una vostra invenzione lessicale (mussa in ligure indica l’apparato genitale femminile ndr)?

F.S. Sì e arriva proprio da questo processo. Avevamo bisogno di una parola, che il pubblico potesse ricordare, con cui mettere in scena altri tradimenti di Fabrizio senza far vedere nulla ma solo affidandoci all’intelligenza dello spettatore. Raccontando di un acrobata, di un funambolo delle parole, “mussica” ci è sembrata una sintesi perfetta.

G.M Decisa la struttura, dovevamo trovare una parola che fosse un gioco di parole, che incarnasse Fabrizio e che non potesse essere al di sotto del gioco di parole che lui stesso creava.

Avevate immaginato un film per il cinema?

G.M. All’inizio del progetto sapevamo già che il destinatario sarebbe stato quello televisivo ma abbiamo rotto la struttura tradizionale delle miniserie. La prima parte è una sorta di romanzo di formazione in cui Fabrizio diventa Fabrizio De André. Tutto il film prima del rapimento è concentrato sulla figura di Fabrizio, da quel momento si comincia a vedere anche il punto di vista delle altre persone e questo fa deflagrare la storia. Nella seconda parte non volevamo raccontare gli ultimi anni biografici né la morte ma chiudere con la stessa sensazione che ci ha lasciato lui, cioè che continuando avrebbe potuto scrivere altri 10, 20 dischi meravigliosi.

F.S. Ogni scena è curata come se fosse un piccolo film: i dialoghi, i gesti, i fuochi; in questo caso poi l’interpretazione è stata meravigliosa.

G.M. Cerchiamo di fare questo mentre, come dice Marinelli, “gli attori danzano sulla sceneggiatura”.

F.S. C’è poi un epilogo lunghissimo perché tutti si aspettano che la fine coincida con la liberazione e invece si continua fino a quel finale che è stata la nostra dichiarazione di poetica. Vedere quella scena in teatro significa svelare questa operazione, prendere le distanze ed essere consapevoli che quello che stavamo facendo era un lavoro di finzione. Con molto rispetto infatti Luca applaude De André con l’idea di dire “noi ci abbiamo provato ma il vero Fabrizio sei tu”.

A volte sembra di rivedere De Andrè ritratto nelle sue foto più note, è come se aveste ricreato la storia intorno a quelle immagini.

F.S. Sì ci sono alcune immagini che ci hanno folgorato e intorno alle quali abbiamo ricostruito la scena. Ad esempio Fabrizio ragazzo che salta sul fuoco. Dori ha dato un contributo fondamentale, non solo prestando gli abiti veri di lei e di Fabrizio, ma preparando per ogni personaggio una galleria di foto anche inedite, che ha messo a disposizione della produzione proprio perché la ricostruzione fosse attendibile e meticolosa.

Prima si parlava di differenze tra cinema e tv, in questo caso non si nota la differenza, c’è stato un investimento totale e d’amore per la riuscita del film. Angelo Barbagallo e l’organizzatrice generale Maria Panicucci hanno messo insieme una squadra strepitosa.

Quali sono state le reazioni di chi ha vissuto con De André?

F.S. La commozione di Luvi e il modo in cui ci ha detto di aver ritrovato il padre è stata una delle cose più commoventi che ci ha regalato questo lavoro. Villaggio purtroppo non ha potuto vedere il film ma ha letto la sceneggiatura e ha detto: “non c’è niente di vero ma noi eravamo così”. Credo che questa sia la frase più bella perché significa che siamo riusciti a riproporre uno spirito pur inventandoci tutto, sulla falsariga degli aneddoti.

Progetti futuri? Pensate di riprendere uno dei tanti soggetti lasciati incompiuti da Caligari?

F.S. Senza dubbio, è nella nostra volontà anche perché quella della Banda Caligari è stata un’esperienza che emotivamente non dimenticheremo mai. Entro marzo poi uscirà un libro che abbiamo scritto con Dori Ghezzi per Stile Libero Einaudi, in cui tra le altre cose raccontiamo il dietro le quinte di questo progetto.

G.M. È uno strano memoir e un racconto fatto di racconti legati alla vita di Dori e Fabrizio e all’Italia degli ultimi 50 anni.