E’ l’isola di Barroy la vera protagonista di Gli invisibili di Roy Jacobsen (traduzione di Maria Valeria D’Avino, Iperborea, pp. 285, € 18,00), primo dei quattro volumi della Saga dei Barroy, tutti di prossima pubblicazione presso Iperborea.

Per le prime novanta pagine Jacobsen racconta l’isola – non descrive, racconta – in tutte le sue stagioni: «arcobaleno sulla terra», quando l’autunno colora i pochi alberi e i molti cespugli che la coprono, «animale dalla pelliccia scura che geme e si lamenta» sotto la tempesta, «cadavere dai capelli candidi», quando l’inverno la copre di neve. In un tempo sospeso, che fa di questo scoglio al largo della costa norvegese una sorta di brullo giardino dell’Eden, anche la minuscola comunità di isolani è ridotta a natura: le loro mani presto o tardi «si trasformano in legno», prima di diventare «conchiglie vuote sulle ginocchia», quando l’età le rende inabili al lavoro. I pochi abitanti dell’isola sono Hans Barroy e la sua famiglia: il padre ormai anziano, la sorella ritardata, la moglie e figlia Ingrid, «una manciata di persone che coltiva un sottile strato di terra e pesca nelle profondità del mare e partorisce figli».

A far uscire l’isola e i suoi abitanti dal loro eterno presente è l’irrompere del mondo esterno: arriva prima un muratore svedese che passa un’estate sull’isola per costruire un nuovo pontile, poi un evaso che vi cerca rifugio derubando per sempre l’isola della sua aura di quasi sovrannaturale inviolabilità. Entrambi fanno precipitare Barroy nel tempo storico, sottolineato anche dall’improvviso passaggio del racconto dal presente al passato.

Gli anni avanzano, nuovi arrivi ingrandiscono la famiglia, la vecchiaia e gli incidenti tornano a rimpicciolirla. L’isola stessa inizia a cambiare: Hans, sospeso tra quel piccolo mondo e il mondo appena più grande delle Lofoten dove passa la stagione della pesca, espande ambiziosamente il suo piccolo regno: oltre al nuovo pontile costruisce una cisterna, un capanno, degli essiccatoi per il merluzzo, dissoda campi, scava pozzi, stringe accordi per vendere il latte sulla terraferma. Quasi senza che gli isolani se ne accorgano «la barca del latte è diventata un orologio, ha adeguato il loro calcolo del tempo a quello del continente».
È il primo passo del lento progresso che gradualmente farà scomparire quel mondo e quegli uomini che per secoli, fino alla scoperta del petrolio del Mare del Nord, hanno costituito la vera ossatura della Norvegia: una popolazione di dimenticati a cui Jacobsen vuole restituire visibilità con questo affresco scabro come l’isola in cui è ambientato, scritto in una lingua che mescola la quotidiana concretezza dei pescatori alla laconica solennità di un racconto biblico o di una saga.