Parte dalla Puglia un inedito percorso di ecopedagogia e lettura ecologica delle Costituzioni. Ad inaugurarlo il Centro di ricerca euro americano sulle politiche costituzionali dell’Università del Salento, Cedeuam. Il progetto di studio è nato i seno alla Notte europea dei ricercatori e delle ricercatrici, tenutasi il 30 settembre scorso. «Miriamo a far conoscere tutte le implicazioni, civili e politiche, dell’emergenza climatica e ambientale in atto», spiega l’ideatore Michele Carducci, docente ordinario di Diritto costituzionale comparato e climatico a Lecce.

Professore, lei è tra gli esperti che hanno redatto la proposta di una «Carta dei diritti fondamentali della natura dell’Ue» e ha contribuito alla stesura della prima relazione speciale Onu sulla «Promozione e protezione dei diritti umani nel contesto del cambiamento climatico». Quanto hanno influito queste ricerche sulle proposte presentate in questi giorni?

Moltissimo e per una semplice ragione: studiare la qualificazione della natura come soggetto di diritto meritevole di tutela e gli impatti dell’emergenza climatica su tutte le forme di vita permette di constatare quanto insufficienti, inadeguati e contraddittori siano gli strumenti politici e giuridici che mettiamo in campo per lottare contro la distruzione dell’ambiente e le ingiustizie conseguenti. Le proposte presentate alla Notte dei ricercatori offrono a tutti i cittadini l’occasione di liberarsi dall’ignoranza di queste contraddizioni.

Questo significa che il diritto, così come attualmente costruito a livello internazionale, sovranazionale e nazionale, non è adatto a tutelare la vita e l’ambiente?

Sostanzialmente no. Si parla di disfunzionalità ecosistemica del diritto. Il diritto è una creazione umana di regolazione della sopravvivenza, che, nel corso della sua evoluzione soprattutto occidentale (divenuta poi mondiale), si è autonomizzato dalla regolazione naturale della sopravvivenza per assumere, come suo oggetto, solo gli scambi inventati dagli esseri umani. Per questo, il diritto contemporaneo opera in funzione non più della biofisica del pianeta, ossia della sopravvivenza nel tempo delle forme di vita, bensì della sopravvivenza nel tempo degli scambi, materiali o immateriali, inventati dall’uomo. Non a caso, il suo postulato è il cosiddetto bilanciamento, ovvero l’equilibrio di scambio di pretese individuali («diritti») e di oggetti («beni»). Nel 2020, l’antropomassa, cioè l’insieme di tutti questi scambi inventati, ha superato, per la prima volta, la biomassa, ovvero l’insieme delle forme di vita che supportano la sopravvivenza. Questo è il segno tangibile della disfunzionalità.

È per questo che si parla di diritti della natura?

Sì, i diritti della natura non sono pretese che si aggiungono alle pretese umane, entrando in competizione con quest’ultime. Nella tradizione giuridica dell’Occidente, la natura è stata intesa come un insieme di «beni» e «servizi» utili all’essere umano, non invece come un insieme di condizioni che, salvaguardando tutte le forme di vita, garantiscono la sopravvivenza umana. Per esempio se ritengo che l’ape sia utile perché fa il miele che poi vendo, qualifico l’ape come «servizio» che produce poi il miele come «bene». Se invece osservo che l’ape è innanzitutto utile per l’impollinazione dei fiori, senza i quali non si fa il miele, ragiono in termini di diritti della natura e concludo che anche l’ape ha un diritto a impollinare, utile prima di tutto a sé per poter poi essere utile a tutti. Noi siamo stati alfabetizzati sul primo codice comunicativo. Per questo non sappiamo parlare né comprendere il secondo.

I diritti della natura quindi sono anti-individualistici?

Sì. La collisione tra pretese umane individuali è divenuta ingestibile. Per governarla e tacitarla, la tradizione liberale e il diritto contemporaneo sono stati costretti a ricorrere a numerose finzioni, come quella, prima citata, del bilanciamento o quella della universalità dei diritti, perennemente smentite dai fatti. Nel diritto comparato, questa contraddizione tra finzione e realtà è descritta con diverse denominazioni: paradosso di Böckenförde, prima legge della termodinamica culturale ecc… Spostare l’asse dei diritti sulla natura, invece, significa prendere atto che ogni essere vivente nasce e sopravvive grazie a relazioni di vita. Qualsiasi dimensione individuale presuppone sempre il rispetto di una dimensione relazionale, non viceversa. I diritti della natura sono diritti relazionali.

Di recente ha anche organizzato, presso l’Università del Salento, la Summer School dedicata al tema «Diritti della natura, diritti educazionali: riflessioni critiche e proposte». Cosa è emerso?

Lo scopo è stato quello di discutere, attraverso il contributo di studiosi ed esperienze di tutto il mondo, del problema della nostra emancipazione, come esseri umani, dall’ignoranza sui problemi planetari, che sono ormai di sopravvivenza della specie dentro il sistema terrestre. Quanto proposto nella Notte dei ricercatori è conseguente a quel confronto.

Sulla prestigiosa rivista «Pnas», è stato pubblicato uno studio intitolato «Climate Endgame», in cui si profila un processo di estinzione di massa che includerebbe anche la specie umana, a causa delle condizioni di invivibilità crescente del nostro pianeta sempre più surriscaldato. Qual è il ruolo dei diritti della natura in questo scenario?

Quello studio rivolge a tutti noi un interrogativo inquietante: che ce ne facciamo di una sostenibilità invivibile? L’intero sistema terrestre si fonda sulla vivibilità e sull’ospitalità, ossia sulla persistenza nel tempo delle connessioni biofisiche di sopravvivenza delle forme di vita. Al contrario, la sostenibilità non è una legge della natura, ma un’ennesima invenzione umana. Quindi vivibilità e sostenibilità non sono speculari. Per esempio, esistono economie sostenibili, ma dentro condizioni invivibili. La vivibilità, inoltre, esclude la povertà, la sostenibilità no. Discutere di diritti della natura ci libera dalla confusione tra sostenibilità e vivibilità.

La recente riforma italiana degli articoli 9 e 41 della Costituzione va nella direzione dei diritti della natura?

No, ma bisogna fare una precisazione. Una volta che si scrivono regole, i loro contenuti lessicali e semantici subiscono una sorta di eterogenesi dei fini, soprattutto quando riferiti a fatti naturali (si pensi, per un parallelo, all’evoluzione dell’art. 29 della Costituzione sulla famiglia come società naturale). Inoltre, alcune parole, inserite in quelle disposizioni, non hanno significati fungibili. Per esempio, posso declinare la parola ambiente in tanti modi; quella di biodiversità no, dato che quest’ultima riflette leggi di natura scoperte dalla scienza. In definitiva, si tratta di una novità comunque importante, da collegare alla recente Risoluzione Onu, votata anche dall’Italia, sul riconoscimento universale del diritto umano all’ambiente sano, ulteriore tassello verso una declinazione dei diritti non individualistica e materialistica ma relazionata con le altre forme di vita.

Lei è tra i promotori del contenzioso climatico contro lo Stato italiano, denominato «Giudizio universale». Questa causa civile riguarda anche i diritti della natura?

Purtroppo il nostro ordinamento nega l’esistenza dei diritti della natura. Tuttavia, in Giudizio Universale, lamentiamo la persistente violazione, da parte dello Stato, di una serie di leggi di natura, senza il rispetto delle quali è impossibile, per consenso scientifico unanime mondiale, uscire dall’emergenza climatica. Si tratta, quindi, di un caso in cui il tema della natura è centrale al pari di quello delle regole giuridiche. Con una precisazione, però: che il diritto non può fare a meno della natura, se non fingendo a se stesso e alla vita, perché la natura, con le sue forme di vita, è nata prima del diritto, non viceversa. Se vogliamo discutere seriamente e onestamente di vivibilità in questo pianeta, dobbiamo partire da questa banale, ma dimenticata, verità.