Cultura

La natura è una favola

La natura è una favola/var/www/ilmanifesto/data/wordpress/wp content/uploads/2014/06/19/dsc 1989 installazione kiki smith san gimignano foto manuela de leonardis

Intervista Un incontro con Kiki Smith. L'artista americana è in mostra alla galleria Continua di san Gimignano

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 19 giugno 2014

Eterea, apparentemente sfuggente, così appare Kiki (Chiara) Smith (Norimberga 1954, vive e lavora a New York), con il sorriso enigmatico che illumina i suoi occhi celesti. I riccioli grigi circondano il volto, meno vaporosi di tempo fa. Lo sguardo rincorre i pensieri, prima di rispondere alle domande. Sembra fragile e altrettanto forte, certamente è spontanea nel raccontarsi e svela un atteggiamento che è antidivistico, a dispetto della fama internazionale che la circonda. La mostra Path è la sua prima personale alla galleria Continua di San Gimignano (fino al 30 agosto). La sua presenza in Toscana è anche l’occasione per formalizzare la donazione ai comuni di Colle Val d’Elsa, Poggibonsi e San Gimignano del lavoro realizzato nel 2010 per la mostra Color Life, curata da Cai Guo-Qiangall’UMoCA, Under Museum of Contemporary di Colle di Val d’Elsa. Tre sculture che rappresentano ognuna una bambina seduta, ritratta in un momento di pausa dagli affanni quotidiani, nel riposo rigenerante che sconfina tra veglia e sonno. La stessa dimensione di sospensione attraversa i tre volti femminili in bronzo delle due fontane realizzate per il giardino della galleria Continua, dove la fusione uomo-natura diventa esplicita nella raffigurazione di questi volti umani innestati su steli che hanno corolle di petali per capelli. «La natura è una continua meraviglia. È prezioso farne parte», afferma Kiki Smith.
Altre sue opere datate 2005-2014, tra carte nepalesi e glitter, vetri colati al piombo, bronzi con foglie d’oro e argento, stampe fotografiche, arazzi Jacquard, sono dislocate in diversi luoghi del centro storico: nell’Arco dei Becci e all’ultimo piano dell’antico edificio del Leon Bianco, aperto per la prima volta al pubblico. L’artista si mette alla prova realizzando, poi, una serie di cliché-verre (Haunthed, 2011) esposti nell’appartamento del Leon Bianco insieme alla scultura d’argento purissimo (Girl, 2014) che raffigura una figura femminile nuda – un po’ donna, un po’ bambina – che tiene in mano tre piume, derivazione del disegno Tree with bird (2009).
Con le sue pareti screpolate, i pavimenti irregolari in cotto e le travi di legno, questo spazio domestico è fortemente connotato. Uno scenario «precario» in cui trova posto, in fondo al lungo corridoio, anche l’installazione Homecoming (2012) con le sedie capovolte e sospese, che si lasciano accarezzare dalla brezza che entra dalla finestra aperta che le fa oscillare lievemente. Due uccelli d’alluminio vi sono poggiati, in attesa. Il lupo, intanto, sbuca dall’arazzo lungo la parete e la striscia d’azzurro ricamata nella lana di Cathedral (2012) si sintonizza con la stessa tonalità del soffitto ligneo.
Agnelli, colombe, conigli, aquile, lupi… la natura entra nella storia. Storie che arrivano dal passato, restituite alla collettività. Lo sviluppo della narrazione è orizzontale, ipotetici fotogrammi in sequenza che ognuno può personalizzare.

L’intuizione è determinante nel suo approccio alla vita: come si traduce, concretamente, nel momento della realizzazione dell’opera d’arte?

Ascoltare se stessi e il mondo esterno è come se fosse la medesima cosa. Perché quando si ascolta, il mondo esterno passa attraverso di noi, per cui non c’è alcuna differenza tra l’uno e l’altro. Il lavoro artistico è una sintesi della propria esperienza che diventa manifestazione fisica. Una collaborazione tra se stessi e la materia che si usa. C’è anche l’empatia con il momento iniziale e quello che succede dopo.

Il corpo sezionato o nella sua interezza, è sinonimo di lacerazioni, ferite, fragilità, soprattutto quando è femminile. Dal 1979, quando ricevette in dono il libro «Gray’s Anatomy», attraverso il corpo ha affrontato tematiche legate all’Aids, gender, razzismo, introducendo anche materiale organico, incluso il sangue. Allora scioccare il pubblico era uno strumento per rivendicazioni sociali e politiche. Riproporre queste tematiche oggi, con miti e leggende dell’antichità, e una personale dimensione onirica, ha la stessa forza?

È dai primi anni ’90 che ho smesso di lavorare con il corpo. Però quando succedono cose come l’uccisione per motivi d’onore di una ragazza in Pakistan, allora torno a pensare a cosa significhi trovarsi dentro un corpo, un corpo per di più femminile, un corpo nel mondo. Penso alla violenza e alla fragilità. Come cittadina, ma anche come individuo, sono interessata a quello che succede intorno al corpo umano: è una preoccupazione lecita. Non lo faccio dal punto di vista artistico, perché questo soggetto non mi appartiene più.Non è detto che l’interesse personale e il lavoro artistico debbano sempre coincidere. Le dinamiche cambiano durante la vita. Il mio lavoro con il corpo l’ho fatto quando ero ventenne, ora ho sessant’anni e ho un altro rapporto con la fisicità. Da giovane, cercavo di comprendere come ci si sentisse «dentro» a un corpo, adesso invece guardo a ciò che c’è fuori.

In tutto il suo lavoro c’è una convivenza forzata con il senso (o non senso) della morte, anche attraverso la rappresentazione di animali, riconducibile a una matrice cattolica. La morte come idea di trasformazione e passaggio all’altrove?

Non saprei dire cosa sia la morte, so solo che è qualcosa di inevitabile che ci gira intorno, con cui ci si scontra. Si cerca di capire il processo e come possa dare, o meno, significato alla vita. La morte racchiude tutto. È un grande spazio. Più si va avanti con l’età e più si pensa al suo avvicinarsi con la consapevolezza della preziosità dell’esistenza. Certamente non ho alcuna conoscenza privilegiata… (ride, ndr). Rispetto a questo soggetto, mi sento come una sonnambula che prova ad andare avanti con difficoltà per cercare i propri parametri. L’arte è una forma per dare senso alla vita.

Ha più volte parlato del rapporto con suo padre Tony, noto scultore minimalista. Ma c’è anche una madre, Jane Lawrence, cantante lirica e attrice; una sorella Seton, gemella della scomparsa Bebe, fotografa e una grande casa vittoriana a South Orange, New Jersey. Quali sono state le potenzialità e i limiti di un background famigliare così impegnativo?

Non so se sia stato così impegnativo o anche una sfida…! Ho vissuto in quel contesto in modo positivo. Probabilmente, sono diventata artista perché sono cresciuta in una famiglia creativa e ho avuto la possibilità di accedere al linguaggio infinito dell’arte. Ogni famiglia ha le proprie dinamiche. Mi sono sempre considerata fortunata ad averne avuta una come la mia. Anche adesso, qui a San Gimignano, sono con mia sorella Seton. Siamo molto affiatate e quando torniamo a New York partecipiamo alla mostra Three Women Artists presso Dr. Oliver Bronson House.Abbiamo un legame forte e anche se il nostro lavoro è completamente diverso, ognuna di noi influenza l’altra. Sul mio lavoro, passa anche l’influsso di mio padre e di mia madre. Mio padre, Seton ed io abbiamo realizzato alcune mostre insieme, tra cui quella alla Kunsthalle di Bielefeld, nel 2012.

Il suo immaginario è determinato, in buona parte, dall’aspetto domestico. Oggetti che popolano il quotidiano nella sua casa-studio nell’East Village vengono estrapolati e isolati per iniziare un altro percorso..

Per un lungo periodo, mi sono interessata agli oggetti comuni, ora invece sto cercando di lasciarli andare. Per me, le cose quotidiane hanno due aspetti. Il primo è legato al mondo materiale, il secondo è capire come sono nate, chi le ha realizzate, quanto amore e passione sono stati impiegati nella loro realizzazione, quante energie impiegate per dar loro vita. Passo molto tempo in mezzo agli oggetti nei musei, al supermercato o nei mercatini delle pulci, cercando sempre di capire. In un certo senso, provo a comprendere quello che non è visibile. Guardo a quella che è l’intenzione e, come dicevo, a tutto ciò che non appare.

In mostra sono esposti anche gli arazzi tessuti su telai Jacquard, che sono l’ulteriore evoluzione del disegno che diventa litografia, poi collage e infine colore. Cosa ha rappresentato l’introduzione del colore?

Prima non amavo i colori. Nei miei lavori degli esordi, usavo solo il colore dei materiali, ma ora mi attraggono. Una delle cose importanti nella storia dell’arazzo è proprio l’uso cromatico. Quando vengono impiegati danno la possibilità di ottenere un colore denso e molto saturo. Per me è eccitante giocare con i colori e il fatto di essere artista mi permette di fare esperienza e così imparare.

Cosa ci può dire, invece, dei cliché-verre?

Sono partita da cliché-verre in bianco e nero e poi ho pensato che potevo farli anche a colori. Ho cominciato con le fotografie di fiori, poi ho inserito i colori con il computer e ho dipinto su quei colori invertiti: con la stampa avrei ottenuto delle cromìe naturalistiche. Ma non è accaduto, devo lavorare di più! Però mi piace molto il processo della tecnica di stampa a contatto che, in fondo, è un dipinto. Era una tecnica molto di successo nell’Ottocento. Trovo che sia molto interessante, anche per via dell’uso del computer: aiuta a invertire i colori su cui si dipinge. Così, come nella tecnica dell’arazzo Jacquard, sono affascinata dal passaggio dalla mano al computer e nuovamente alla mano. Apprezzo particolarmente lo spazio tra le varie tecniche: per esempio, nel cliché-verre c’è quello tra la fotografia e l’immagine dipinta a mano, dove si perde il confine tra l’una e l’altra.

Anche l’autoritratto appartiene al suo linguaggio…

Forse si tratta di giocare con il presente. Fino a una certa età, non ho iniziato a realizzare lavori figurativi (non mi piace questa parola) e autoritratti. Poi, ho cominciato a vedere le rughe sulla mia faccia: quando si prova a fare un ritratto di una persona giovane è tutta luce; dopo i quarant’anni ci sono le rughe da trattenere. Per me è stato divertente diventare più vecchia e rugosa. Forse è come usare, ma anche accettare, le varie fasi della vita. I miei amici non vogliono che io li disegni, perché non amano vedersi con i segni dell’età. Così, se non c’è un’altra persona nelle vicinanze posso sempre usare me stessa (ecco gli autoritratti!). Disegnare se stessi è come disegnare una sedia. Sei tu, ma sei anche l’altro. Sei tu, ma non sei tu. Si ha a che fare con un altro personaggio.

Nella sequenza fotografica «Dwelling» (2012) appaiono ciocche dei suoi capelli. Si possono considerare una forma di autoritratto?

In questo caso, è come se fosse un film. È il mio senso di humor. Da piccola, mi aveva colpito la storia di Barbablù: i capelli continuavano a crescere anche dopo la morte e uscivano da sotto la porta della stanza. Anche le altre foto in cui si vedono i miei piedi spuntare da sotto il letto (Under the weather, n.d.r.) riguardano la morte. Con tutte le notizie di cronaca che raccontano dell’assassinio di donne, questo lavoro finisce per funzionare come una forma di autoprotezione. Quando faccio le cose di tutti i giorni mi capita di pensare all’immagine del mio corpo morto sotto il divano. Sì, è una sorta di cinema muto dell’horror!

DSC_1992 - arazzo KIKI SMITH - San Gimignano (foto Manuela De Leonardis)
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DSC_1997 - KIKI SMITH - San Gimignano (foto Manuela De Leonardis)

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