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La natura di Trapani, tra cùscuso e pale eoliche

«Di vento, sale e acqua è impastata Trapani», scrive Giovanna Casadio nelle prime pagine di Dove si guarda è quello che siamo (Edt). Degli stessi elementi sono impregnati i ricordi […]

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 28 febbraio 2019

«Di vento, sale e acqua è impastata Trapani», scrive Giovanna Casadio nelle prime pagine di Dove si guarda è quello che siamo (Edt). Degli stessi elementi sono impregnati i ricordi della giornalista-scrittrice, trapanese d’origine e oggi cronista parlamentare del quotidiano La Repubblica.

È la natura in larga misura a modellare i bozzetti di cui è composto un libro nel quale si mescolano memorie sensoriali, «cunti» della cultura orale e vicende storiche. Il vento è lo scirocco al quale le vecchie case padronali riservavano una stanza, riparata o sotterranea, dove ripararsi dai suoi effetti, così elencati: «languore, desiderio, perdizione, miraggio». O la tramontana che d’autunno, improvvisa e sorprendente, «s’intrufola sotto le vesti, fischia nelle orecchie e ingrossa il mare».

Il sale è quello delle saline popolate di uccelli migratori a caccia di gamberetti e, durante l’inverno, di orate, spigole e cefali. Attive durante il periodo arabo e forse già al tempo dei fenici, cresciute con i normanni, gli aragonesi e gli spagnoli, assegnate come feudi alle famiglie nobili cittadine, hanno retto per lungo tempo l’economia cittadina e oggi sono una riserva naturale protetta dal Wwf. Lavorare nelle saline un tempo voleva dire avere un lavoro stagionale ma sicuro, massacrante ma da custodire come una fortuna. «Da sale deriva salario», ricorda lo zio alla scrittrice.

L’acqua «profumata e nebbiosa» è quella di «zammù», l’anice del chiosco di piazza Fieravecchia, che rinfrescò il generale Giuseppe Garibaldi di passaggio con i Mille verso l’unificazione d’Italia. È quella del mare dove il professor Tanino «’ngiuriato» Vindice, forte delle discutibili convinzioni di uno studioso inglese di fine Ottocento, ritiene sia stata ambientata l’Odissea. O quella dell’acquedotto che dal 1300 la porta all’interno delle mura cittadine e che oggi scarseggia per responsabilità malavitose, alimentando un paesaggio fatto di cisterne, bidoni e serbatoi che hanno come sfondo il Mediterraneo.

Non meno basilare è un quarto elemento che non dà titolo a nessuno capitolo: il cibo, del quale l’intera narrazione è intrisa. È il cùscuso che «trasforma in sapore la risacca che s’infrange e la spuma delle onde sulla sabbia». La granita di gelsomino, unico rimedio contro l’aria rovente nei giorni di scirocco, e la cuccìa, un dolce di grano saraceno, ricotta e cannella che si mangia il 13 dicembre, in ossequio a una stagionalità gastronomica religiosa. O il merluzzo appena pescato e offerto ai bambini, nella cui lisca immancabilmente si scorge la sagoma della Madonna. O ancora i frutti donati ai bambini nel giorno dei morti: «ciliege, fichi d’india, marroni, mele, pere, noci, susine, mandarini, albicocche, limoni, pesche, fichi, grappoli d’uva, fette d’anguria, fragole, banane, nespole, cachi, melagrane».

La chiusura è un tuffo nell’attualità, tra pale eoliche che assediano il paesaggio, scritte sui muri che inneggiano al superlatitante Matteo Messina Denaro e monumenti alle vittime di una strage mafiosa. A sottolineare lo scarto tra la Trapani idealizzata dell’infanzia, più intima e scevra di conflitti, e quella osservata oggi con lo sguardo adulto e senza filtri della giornalista. La prima non è meno vera della seconda.

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