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Il fronte turco della Nato

Il fronte turco della NatoCaccia francese – Reuters

Siria Dopo la risoluzione Onu sulla processo di pace, il Patto Atlantico manda aerei e navi in Turchia La Russia risponde a tono: «Invieremo altri mezzi militari». In Iraq un raid Usa uccide 9 soldati governativi: mea culpa a metà del Pentagono

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 20 dicembre 2015

Che strana la pace siriana. Mentre l’Onu dava il via libera alla risoluzione sul processo per uscire dalla quinquennale crisi, la Nato decideva di inviare alla Turchia navi, caccia e aerei di sorveglianza Awacs per rafforzarne il sistema di difesa. Una pace da mettere sotto assedio, fittizio ramoscello ulivo intrecciato ad una pistola carica.

A gennaio, dopotutto, manca poco. Manca poco all’apertura del negoziato a cui trascinare parti scettiche, il governo Assad e il fronte fumoso delle opposizioni. Il tempo va usato per definire rapporti di potere. Con Mosca che gestisce buona parte delle operazioni anti-Isis, il Patto Atlantico si schiera alla frontiera, riconoscendo così legittimità all’aggressività turca contro l’alleato-avversario russo.

La versione atlantica è opposta. Il segretario generale Stoltenberg precisa che il pacchetto di aiuti è una misura meramente difensiva e fonti interne aggiungono che è volto ad evitare incidenti simili all’abbattimento del jet russo. Insomma, serve a monitorare i turchi e raffreddare le tensioni con la Russia. Risponde a tono Putin: «Vediamo come sono efficienti i nostri piloti, la marina, l’esercito. Non sono il massimo delle nostre capacità. Abbiamo altri mezzi militari. Li useremo, se necessario», ha detto ieri il presidente russo riferendosi alla lotta all’Isis, a poche ore dall’adozione della risoluzione 2254.

Quella risoluzione, salutata come un risultato storico (cessate il fuoco entro maggio, lancio del negoziato a gennaio) resta però invischiata nel non-detto: del futuro del presidente Assad non si parla, come non si parla di quali opposizioni potranno partecipare al negoziato. Nodi da sciogliere che spingono i vari protagonisti a ribadire le proprie posizioni. Se il ministro degli Esteri francese Fabius e il collega britannico Hammond insistino sulla necessità di assicurare l’uscita di scena di Assad, il segretario di Stato Usa Kerry non risparmia staffilate a Mosca: «Dobbiamo lavorare sulla percentuale di raid russi che effettivamente colpiscono l’Isis: se l’80% centrano le opposizioni, è una sfida da affrontare».

Più soft è la posizione dell’Iran. Ieri Teheran ha abbassato le armi e dichiarato di adeguarsi alla posizione russa: Assad non è più una precondizione insuperabile. Secondo fonti interne alla Repubblica Islamica, l’ammorbidimento sarebbe frutto dell’incontro tra Putin e l’Ayatollah Khamenei, il mese scorso, ma anche del protagonismo russo che potrebbe limitare il tradizionale ruolo iraniano a Damasco.

Screzi fiorivano anche intorno alla lista giordana di 157 gruppi esclusi dal negoziato: furiosa Teheran per l’inserimento (poi ritirato) delle Guardie Rivoluzionarie, infastidita la Turchia per l’esclusione del Pkk. L’impasse va superata: si tratta di un elemento centrale, base per i futuri raid. Che troppo spesso colpiscono obiettivi sbagliati. Venerdì è toccato alle truppe irachene, centrate a Fallujah da bombe Usa: «La coalizione stava coprendo l’avanzata delle truppe di terra vicino Fallujah perché i nostri elicotteri non potevano alzarsi in volo per il cattivo tempo – ha detto il ministro della Difesa al-Obeidi – Il bilancio finale è di 9 soldati uccisi, tra loro un ufficiale».

Il Pentagono fa mea culpa a metà: ammette il raid, ammette l’uccisione di alleati, ma scarica la responsabilità su Baghdad che avrebbe fornito informazioni sbagliate. «[Il premier iracheno al-Abadi] e io abbiamo concordato sull’apertura di un’inchiesta, ma sono cose che succedono, un incidente che coinvolge entrambe le parti», lo scarno commento del segretario alla Difesa Carter. Intanto all’ospedale Yarmouk di Baghdad i familiari dei soldati affollavano disperati i corridoi: «Pensavamo fosse fuoco di Daesh – racconta un militare sopravvissuto al The Washington Post – Ho visto tanti cadaveri». Cadaveri che non aiutano la debole credibilità Usa: ieri erano in tanti, tra familiari e miliziani sciiti accorsi in ospedale, a puntare il dito contro il paese che considerano responsabile della tragedia irachena.

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