La musealizzazione della Guerra fredda
Trasferta a Berlino La collina di detriti sul Teufelssee; il quartier generale della Stasi; il museo dello spionaggio coi suoi dispositivi inverosimili... Un reportage
Trasferta a Berlino La collina di detriti sul Teufelssee; il quartier generale della Stasi; il museo dello spionaggio coi suoi dispositivi inverosimili... Un reportage
Sopra al Teufelssee, il piccolo lago che si apre nel bosco di Grunewald, si alza una torre di cemento e ferro, sormontata da una cupola bianca a forma di pallone. Per raggiungere quella struttura fatiscente, sotto cui fanno capolino altre cupole più basse, si segue il sentiero che costeggia il lago, dove molti cultori del naturismo (che qui si chiama FKK, Freikörperkultur) passano i fine settimana. Quasi non ci si accorge di stare salendo in cima a una collina che sovrasta lo specchio d’acqua di un centinaio di metri. Alla fine della passeggiata, una sbarra e una guardiola ingombra di poster e pieghevoli incanalano nell’atmosfera militare/artistica che aleggia ovunque nella città di Berlino, come sua condanna o benedizione anche in favore dei turisti del secondo millennio, per cui le memorie sono poco più (o poco meno) che leggenda. Dietro la sbarra, appare il corpo della basilica pallida e sbrindellata: cubi di cemento armato, vuoti finestroni dove dovevano esserci vetrate, teli di plastica che garriscono al vento. Sulle pareti graffiti enormi e, sotto, gitanti col naso all’aria, pigri dopo l’immersione nell’acqua verde del lago, o dopo l’esposizione al sole. La guardiola offre biglietti per l’esibizione di street art forse più notevole della città, con oltre quattrocento opere ospitate, e molte in continuo cambiamento.
Il luogo sembra parlare da solo, ma molte lingue vi si sovrappongono, a volerle decifrare. L’altezza della collina, che offre una rara prospettiva sopraelevata di Berlino, dal lato opposto al lago, è il frutto di una sovrapposizione che sembra creata ad hoc per rappresentare quel processo di accumulazione della storia, che costruisce inghiottendo, in un delicato equilibrio di esibizione e occultamento: è dovuta a un ammasso di detriti della seconda guerra mondiale, spianati per edificare dagli anni cinquanta una stazione radio dell’americana NSA. Un orecchio mobile proteso verso l’altro – l’est della città, la DDR, lo spazio sovietico. Sotto le macerie, sepolti come il cimitero indiano su cui sorgeva l’Overlook Hotel di Shining, e ugualmente capaci di trasudare fantasmi malevoli, i resti di un centro di addestramento militare voluto da Hitler.
Pochi chilometri più a sud, sul Wannsee, le crociere giornaliere che attraversano il complesso di laghi a sudovest della città sfilano, al termine del tour, davanti alla villa costruita nel 1915 su progetto dell’architetto Paul Otto Baumgarten, e che ventisette anni dopo sarebbe stata il teatro della conferenza dove si decise la Soluzione finale.
Desecretazione rinviata
Le voci che paradossalmente sono più difficili da udire, nel mormorio dei decenni, sono quelle captate dalla stazione di spionaggio occidentale, registrate in archivi la cui desecretazione è stata più volte annunciata e rimandata. Nel quartiere di Lichtenberg, in Normannenstraße, gli edifici che ospitavano il Ministero della sicurezza dello Stato (Staatssicherheit, da cui la famigerata abbreviazione Stasi) offrono ai visitatori il panorama di centinaia di migliaia di cartelle attraverso cui gli apparati della DDR sorvegliavano i loro cittadini e registravano gli informatori. A quasi quarant’anni dal crollo del Muro, la musealizzazione della memoria riflette gli esiti della Guerra Fredda: la storia è finita, ha detto il politologo più citato e meno letto del secolo scorso, Francis Fukuyama; ma non per tutti – verrebbe da fargli eco.
Tra gli estremi di Teufelsberg e del quartier generale della Stasi – emblemi dell’invasione della politica nel corpo dei cittadini – la Guerra Fredda vive oggi anche la sua riformulazione pop, da parco a tema. Verso Potsdamer Platz, a un quarto d’ora di camminata dal Checkpoint Charlie, il posto di blocco iconico tra le zone d’influenza, nel 2015 il giornalista Franz-Michael Günther ha coronato anni di collezionismo di cimeli, risalendo dall’epoca dello scontro Est-Ovest fino alle guerre napoleoniche, con la creazione del Deutsches Spionagemuseum. Di fronte a un centro commerciale, in un palazzo di vetro che potrebbe appartenere a una qualunque multinazionale, i colori al neon delle grafiche del museo accolgono gruppi perlopiù composti da famiglie con bambini, pronti ad assieparsi attorno alle simulazioni di travestimenti, strumenti crittografici e altri ritrovati tecnici che, a vederli dalla prospettiva della quotidianità digitale, si sono rivestiti di un’aura di ucronia un po’ naïve. Si sorride davanti al reggiseno munito di fotocamera (ma chi mai avrà potuto ingannare?), o ai campioni estratti dagli «archivi degli odori» dei sospettati di tradimento. Si fa finta di niente, nelle ultime sale, di fronte all’evidenza che la maggior parte dei dispositivi di controllo inventati o sognati dalle polizie (segrete o no, democratiche o no), li abbiamo incorporati con gioiosa accettazione, nella nostra fame di app, di acquisti comodi e nei miraggi di sicurezza totale.
All’uscita del museo, dopo un calco del cranio mastodontico di Richard Kiel, l’interprete del villain dalla dentatura metallica di La spia che mi amava e Moonraker della serie «007», una fila striminzita di romanzi di John le Carré occhieggiano da uno scaffale del bookshop. Verrebbe voglia di acquistarli in blocco, e di rileggerli ricavandone una guida ai luoghi dello spionaggio della città, consapevoli però che non li ritroveremo, o che ci appariranno differenti. Non solo perché il tempo li ha cambiati, ma perché spesso esistevano soltanto nella mente dell’ex funzionario dell’MI6, e cultore di letteratura tedesca, David Cornwell – questo il vero nome dello scrittore, che al tempo del suo esordio dovette scegliersi uno pseudonimo proprio a causa della sua appartenenza al Servizio segreto britannico.
Ma anche laddove le Carré aveva lavorato di fantasia, forse troveremo più senso della storia che in molti dei luoghi che possiamo visitare di persona, perché vi scopriremo quell’«autorevolezza del dolore» che il suo personaggio più riuscito, la spia George Smiley, riconosceva nell’arcinemico Karla – il dirigente del Kgb che alla fine della trilogia intitolata, appunto, The Quest for Karla (1974-’79), deve cedere e consegnarsi all’omologo inglese, passando all’Occidente sull’Oberbaumbrücke.
Di recente, Sellerio ha ripubblicato in versione aggiornata Agenti segreti di Paolo Bertinetti («Il divano», pp. 402, € 16,00, prefazione di Goffredo Fofi), un volume che segue la storia gloriosa della letteratura spionistica in Gran Bretagna. Nel capitolo su le Carré, Bertinetti sottolinea l’importanza della scena finale di Tutti gli uomini di Smiley, il romanzo che chiude la trilogia. Davanti al Muro, il principale collaboratore di Smiley dice al suo superiore: «George, hai vinto», e l’altro, emergendo dal suo abituale torpore, commenta: «Davvero? Sì, sì, immagino di sì». La guerra di spie ha fatto scivolare via gli ideali, si vince o si perde per una fedeltà priva di fondamento. Se Karla non è certo assolto, nonostante il dolore privato che è diventato l’esca per catturarlo (una figlia malata), l’Occidente non è perdonato: i suoi mezzi lo denunciano agli occhi del mondo, quando almeno possono essere fatti venire a galla; i fini, se pure nascevano da motivazioni meritevoli, sfuggono anche a uno sguardo meno miope di quello di Smiley, che in realtà ci vede benissimo. Così come ci avrebbe sempre visto benissimo il suo creatore, fino alla «guerra al terrore» dell’amministrazione Bush e oltre. Bertinetti ci ricorda che le Carré «è uno dei maggiori romanzieri inglesi della seconda metà del Novecento e di questo inizio di millennio», e se è tale lo si deve anche alla sua postura morale.
Scambio in Turchia
Ci si stupisce, tornando in Italia, di trovare i suoi romanzi in numero sempre minore negli scaffali delle librerie: se ci sono, fanno capolino tra i remainders o nelle sezioni di genere, e con il loro tocco d’antan sembrano perdere in attrattività rispetto alle proposte del momento. Eppure, sarebbero ancora oggi una lente utile per guardarsi attorno – e non solo per chi passeggia a Berlino e dintorni. L’agosto appena trascorso sarà ricordato (o si perderà nella memoria) per il caldo sempre più torrido, ma si apriva in Turchia con uno scambio di prigionieri tra Usa e Russia, il più nutrito dai tempi della Guerra Fredda. Tra i prigionieri liberati dai paesi occidentali, l’ex agente FSB che nel 2019 aveva ucciso in pieno giorno un separatista ceceno nel Kleiner Tiergarten, nel centro di Berlino. Un paio di settimane dopo lo scambio, un’inchiesta tedesca appurava la responsabilità ucraina nel sabotaggio del gasdotto Nord Stream 2; uno dei sabotatori, sotto mandato d’arresto, spariva nel nulla in Polonia, sotto lo sguardo distratto delle autorità del suo paese d’elezione. Smiley e Karla, in fondo, non sono mai morti.
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