20 agosto 2014 il primo ministro italiano Matteo Renzi decideva di dedicare all’Iraq il primo viaggio ufficiale come presidente di turno del Consiglio dell’UE. Atterrato a Erbil, strinse la mano all’allora presidente del Kurdistan iracheno, Masoud Barzani, promettendo armi italiane per aiutare chi aveva resistito in quei territori a Daesh, appena assurto ai disonori delle cronache internazionali per persecuzioni e stragi.

L’opinione pubblica italiana era in quel momento al corrente della sconfitta dei militari di Barzani, i peshmerga, il 4 agosto: le redazioni occidentali avevano raccontato la loro ritirata di fronte all’avanzata dei fondamentalisti che, pochi mesi prima di attaccare Kobane e iniziare gli attacchi contro l’Europa, si erano impadroniti di una montagna irachena pressoché sconosciuta: Shengal. Là vive una minoranza religiosa antichissima e ancor meno nota, gli ezidi, contro cui Daesh compiva in quei giorni il peggiore dei suoi massacri.

Ciò di cui l’opinione pubblica italiana era invece all’oscuro – ma che Renzi, grazie alle relazioni dell’intelligence militare italiana in loco, difficilmente poteva ignorare – era che i peshmerga non erano stati sconfitti da Daesh, ma avevano abbandonato nelle sue mani la comunità ezida dopo averla ingannata e disarmata. Sulle ragioni storiche di questo atto orribile hanno contribuito a gettare luce, negli anni, studiosi come Pierre-Jean Luizard e giornalisti come Michael Rubin, senza sollevare tuttavia grande attenzione. Oggi il fumetto di Zerocalcare racconta quella storia, offrendo al grande pubblico una nuova consapevolezza della vicenda.

E per chi vuole approfondire esce in libreria il saggio di Rojbîn Berîtan e Chiara Cruciati La montagna sola Gli ezidi e l’autonomia democratica di Shengal (Edizioni Alegre, 222 pp., 16 euro) che ricostruisce quel che avvenne e quel che avviene oggi con le aggressioni della Turchia.
Le autrici compaiono nel fumetto di Zerocalcare: proprio in quei mesi realizzavano le interviste che rendono il loro saggio tanto più prezioso perché costruito prevalentemente su fonti dirette. Sono gli ezidi stessi a raccontare la loro storia millenaria fino e oltre i fatti del 2014, quando in migliaia furono trucidati e donne e bambini furono venduti sul «mercato degli schiavi» istituito da Daesh nelle città occupate e online.

Sono loro, inoltre, a spiegare una circostanza politica scottante: unico intervento in loro soccorso fu quello del Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan considerato organizzazione terroristica dall’Italia e dalla Nato su pressione della Turchia. Le armi promesse da Renzi «ai curdi» furono insomma inviate ai curdi sbagliati: non a chi resisteva contro Daesh, ossia il Pkk, ma a chi gli aveva aperto la strada, i peshmerga addestrati dall’esercito italiano. Uno scenario che permette di comprendere perché nessuno prende oggi le difese dell’autogoverno ezida costruito sulla liberazione di Shengal, ottenuta nel 2015 anche dalle forze ezide di autodifesa create grazie al Pkk.

Dopo aver subito quello che l’Onu ha definito un genocidio, Shengal viene oggi bombardata dalla Turchia, insofferente a qualsiasi forma di autonomia promossa dal movimento curdo.
Il libro descrive la natura e le caratteristiche dell’autogoverno, ma il suo valore non si limita alla ricostruzione degli ultimi dieci anni, che hanno segnato il destino dell’Iraq coinvolgendo anche il nostro paese. Ripercorre i fili affascinanti e complessi dell’origine e dello sviluppo storico della religione, della cultura e dell’organizzazione sociale ezide, con i suoi tratti luminosi o oscuri (l’endogamia forzata, la divisione della società in caste).

In opposizione alla tesi sostenuta in Italia, tra gli altri, dal compianto islamologo Alberto Ventura – secondo cui l’ezidismo sarebbe stato originariamente un’eresia islamica – le autrici collocano le sue radici nella Mesopotamia tardo e post-neolitica e nella diffusione dello zoroastrismo, accogliendo criticamente suggestioni metodologiche promosse dalle stesse accademie dell’autogoverno a Shengal e nel Rojava curdo-siriano.

Seguendo uno dei principi cardine della Jineolojî (la Scienza delle donne promossa da Abdullah Öcalan) rivalutano, accanto alla storia orale diretta, il ruolo euristico dell’interpretazione delle tradizioni mitiche, producendo un affresco esaustivo oltre che gradevole alla lettura, e in grado di coniugare denuncia politica e ricerca etnografica.