Cultura

La modernità assemblata alla catena di montaggio

La modernità assemblata alla catena di montaggioIl murales di Diego Rivera a Detroit

Saggi «Fordismi. Storia politica della produzione di massa» di Bruno Settis per il Mulino

Pubblicato quasi 8 anni faEdizione del 29 dicembre 2016

Nel dicembre 1979 nel glorioso stabilimento Ford del River Rouge a Detroit ci fu un’assemblea operaia contro due capi reparto che si dichiaravano membri del Ku Klux Klan e giravano in fabbrica con la classica, tremenda divisa da incappucciati. Quest’episodio mi fu raccontato alcuni mesi dopo il fatto, a Detroit, nell’estate del 1980, da un operaio di quello stabilimento con cui avevo fatto amicizia. Me lo hanno scongelato dalla memoria, dove si era nascosto senza rimedio, l’attuale alzata di scudi dei «suprematisti bianchi» che The Donald ha pensato bene di portarsi a Pennsylvania Avenue e la contemporanea lettura di un libro di Bruno Settis, Fordismi. Storia politica della produzione di massa (il Mulino, pp. 317, euro 29).

Il volantino anti-Klan c’entra col libro di Settis perché nel lavoro del giovane studioso pisano spicca come obiettivo centrale il tentativo di decostruire il monolitico mito fordiano esplorandone i contorni meno visibili. Decostruire cioè l’idea del fordismo come sistema produttivo e sociale quintessenza della modernità, organico, definito una volta per tutte nella testa dell’eroe eponimo Henry Ford e pronto ad accoppiarsi, nell’arco di pochi anni, con l’altra parola magica «keynesismo», per fondare il famoso cosiddetto «compromesso keynesiano».

BASATO SULLA SUCCESSIONE «catene di montaggio-alti salari-contrattazione collettiva-stato sociale» questo sistema si sarebbe diffuso, imponendosi ovunque, uguale, in forza delle cose, nel mondo occidentale. Per dirla con Giuliano Amato versione storico, che Settis cita criticamente, «la produzione di massa di beni diventò distribuzione di massa di beni e servizi. Nacquero le istituzioni sociali fondate sulla raccolta di massa di risorse. Questo è stato il fordismo: queste tre cose messe insieme, non una sola».

Peccato che la questione, mostra Settis integrando ricerche sue e di altri, sia un bel po’ più complicata. A partire dalla stessa esperienza di quella Ford dei cui operai è stato scritto qualche anno fa che già negli anni Trenta «conoscevano il lusso» di «appartamenti dotati non solo di un bagno ma anche di riscaldamento centralizzato, telefono, frigorifero, lavatrice e televisore, compresa un’auto in garage». Mentre Settis mostra bene di che lacrime e sangue grondasse la loro vita quotidiana, materiata di discriminazioni razziali e soprattutto di un regime di fabbrica nel quale predominavano violenza e gangsterismo padronali. Per cui anche l’episodio del Klan in reparto nei civilissimi tardi anni Settanta del Novecento non stupisce più di tanto.

NON MENO INTERESSANTE è, del resto, seguire, sulle orme di Settis, le peripezie che il concetto «fordismo» disegna quando esce dai cancelli del River Rouge per penetrare nella società, a ogni angolo del mondo, fra consensi e resistenze. Di Ford si invaghiscono scrittori radical come lo statunitense John Reed, futuro cantore della rivoluzione russa ne I dieci giorni che sconvolsero il mondo, affascinato dalle paghe migliori e dal mito della tecnologia come strumento di «liberazione» che il «Napoleone del River Rouge» fa intravvedere. Lo considerano con attenzione Lenin e soprattutto Gramsci, il cui complesso rapporto col fordismo Settis restituisce con grande rigore, sottolineando come il pensatore comunista «nello smascherare la natura di classe del fordismo» ne «denunciava il carattere di falsa razionalità» e suggeriva come, «nonostante la meccanizzazione del lavoro e l’impegno di Ford nelle iniziative educative», all’operaio rimanesse comunque «sempre la possibilità di sviluppare pensieri non conformi».

Lo ammirano le figure più diverse, dal leader cinese Sun-Yat-sen (che gli scrive nel 1924: «Conosco e ho letto della tua meravigliosa opera in America. Credo che potrai fare lo stesso in Cina su scala più vasta») ai proprietari della genovese Ansaldo durante la Grande guerra Mario e Pio Perrone, affascinati dagli opuscoli fordisti e conquistati alla «fede nella standardizzazione, la quale», dicono, «nel nostro ambiente deve diventare un culto».

PARE SI INNEGGI ai suoi trattori, tanto da mettere il suo nome accanto a quelli di Lenin e a Stalin, nelle campagne sovietiche negli anni Venti. Lo si studia, dimostra un saggio appena uscito su Comparative Studies in Society and History, nell’Iran degli anni Venti. Ne sbeffeggia invece i ritmi produttivi insostenibili, a inizio anni Trenta, il genio cinematografico di Charlie Chaplin.

Insomma, conclude opportunamente Settis, «il fordismo non fu un avvenimento accaduto una volta sola nel mondo, né un fenomeno unitario, se, pur con profonde differenze, gli Stati Uniti, il Giappone, la Francia, la Germania e i paesi socialisti attraversarono questa fase». Chiarito questo punto grazie a questo caleidoscopico lavoro, si apre adesso la pista delle mutazioni concrete che la produzione di massa ha conosciuto nella prassi. Settis ha tutte le carte in regola per percorrerla.

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