La modella nel flusso della storia
FOTOGRAFIA Intervista con Maria Vittoria Backhaus, in mostra al Castello di Casal Monferrato, omaggio del Middle Monfest. «A Milano, il Jamaica non era un ambiente dove si respirava il successo e nemmeno dove lo si sognava. Di punto in bianco, con il digitale la nostra attrezzatura non valeva più nulla. Ma la tecnica non è importante, la devi conoscere e dimenticare, per concentrarti sul racconto»
FOTOGRAFIA Intervista con Maria Vittoria Backhaus, in mostra al Castello di Casal Monferrato, omaggio del Middle Monfest. «A Milano, il Jamaica non era un ambiente dove si respirava il successo e nemmeno dove lo si sognava. Di punto in bianco, con il digitale la nostra attrezzatura non valeva più nulla. Ma la tecnica non è importante, la devi conoscere e dimenticare, per concentrarti sul racconto»
L’atlante esistenziale di Maria Vittoria Backhaus ha due geografie dentro di sé: una nordica, concentrata su Milano, l’altra siciliana che la portava per lungo tempo a Filicudi, isola amatissima e alla quale ha dedicato molti dei suoi scatti concentrandosi sulla gente del posto.
Studi all’Accademia (in scenografia), inizi da fotoreporter per poi passare quasi fortuitamente alla moda e al design, Backhaus (classe 1942) ha raccontato le mutazioni sociali con una lente surrealista e spiazzante, sempre ancorata all’arte e al cinema, procedendo per scarti di immaginario rispetto alla realtà. «È stata una rivoluzione passare da quello che esisteva in strada a quello che dovevo inventare in studio, ho reimparato un mestiere».
Con un albero genealogico che la vede discendere da Arnaldo Mussolini (è la nipote del fratello minore di Benito), nella sua vita privata ha sempre militato a sinistra e ha sposato Giorgio Backhaus, traduttore dei pensatori della Scuola di Francoforte, da Horkheimer a Adorno. Fino all’11 giugno, presso le Sale Chagall del Castello di Casale Monferrato, la prima stagione del Middle MonFest le rende omaggio con una mostra, a cura di Luciano Bobba e Angelo Ferrillo, con la direzione artistica di Mariateresa Cerretelli, che pescando dal suo archivio ne ripercorre la storia artistica dagli anni Settanta ad oggi.
«Per controllare bene esposizione e inquadratura – dice la reporter – mi servivo delle polaroid, ma non solo. Le incollavo nei quaderni di lavoro, con vicino gli appunti del set fotografico date, esposizioni, luci, numero di scatti. Essere fotografo è esser archivista»
Qual è stata per lei l’illuminazione determinante che l’ha spinta verso quest’arte, forse un regalo famigliare di una macchina fotografica?
Scoprii dagli album di famiglia che mio padre era un ottimo fotografo. Quando avevo otto anni, mi regalò una macchina fotografica, la Rondine, che però sfortunamente persi. Poi, una volta cresciuta, mi imbattei nel catalogo della mostra The family of man: era un’esposizione americana del Moma (curata da Edward Steichen e inaugurata nel 1955, ndr), mi accese un forte interesse verso il mondo della fotografia: era un mezzo per narrare l’essere umano, la vita delle persone. Albergava in me da giovane (come in tutti i giovani del resto) una certa incoscienza e mi sono immersa nella pratica fotografica con grande passione senza pensare al fatto che fosse una professione «maschile».
Che atmosfera si respirava al bar Jamaica e con chi si sentiva più in sintonia, condividendo un certo modo di «guardare il mondo»?
Eravamo tutti squattrinati e ci ritrovavamo in quel posto per parlare di cultura e condividere interessi. Il Jamaica non era un ambiente dove si respirava il successo, e nemmeno dove lo si sognava. Semplicemente, trascorrevamo del buon tempo assieme scambiandoci idee, storie, esperienze. Eravamo ragazzi, affamati di vita. Con Lucas, Dondero, Alfa Castaldi eravamo amici e ci frequentavamo anche al di fuori. E così è stato per tutta la vita.
Lei è stata una delle prime a fotografare i Beatles: ci può raccontare quel momento?
Anche quell’avvenimento fu casuale… I Beatles erano all’inizio della loro carriera, vennero a Milano nel 1965 al Vigorelli dove suonarono in due concerti, uno la sera e uno il pomeriggio. Io andai a quello pomeridiano per potermi muovere con più libertà. Andammo sul tetto del Duomo per uno shooting, ed essendo io giovane e donna mi presero in simpatia. Erano alla mano, ricordo che parlammo del più e del meno. A me non interessavano tanto i Beatles in quanto tali ma il contesto nuovo che li accoglieva: le ragazze che urlavano, i poliziotti giovani del sud che non conoscevano il neonato mondo dei concerti beat: osservavo in che modo la società reagiva alla loro presenza.
Ha avuto difficoltà agli esordi della carriera quando intraprese la strada del fotogiornalismo?
Sì, tant’è che quello del fotogiornalismo è stato un percorso che ho dovuto abbandonare. Non mi portava lavoro sufficiente per mantenermi. Il motivo? I giornali preferivano affidare i servizi fotografici a uomini.
Aveva frequentazioni con Letizia Battaglia e Lisetta Carmi? Come definirebbe oggi il loro «occhio fotografico»?
Sono state due fotografe straordinarie, entrambe con un’identità ben precisa, ma non ci siamo mai frequentate perché vivevamo e lavoravamo in città distanti. Il loro è sempre stato un lavoro politico e sociale; il mio era più leggero e di costume. Perché questo? Pur essendo una persona seria, alla fine non mi prendo mai troppo sul serio.
Moda, design e lifestyle: ha avuto rimpianti per un reportage in proprio, senza commissione, che non è riuscita a fare?
A dire la verità no. Ho lavorato soprattutto per i giornali e, anche se su commissione, ero quasi sempre libera di fare quello che volevo. Non ero considerata un «mero esecutore». Mi veniva assegnata una funzione ideativa. In un certo senso, ero l’art director di me stessa. È stato molto importante il rapporto con i direttori delle testate che mi hanno permesso di realizzare molti miei progetti.
Fuori dalla moda, cosa ha voluto raccontare con i suoi progetti artistici?
Il mio tempo, la mia epoca, anche dentro la moda. Lo scatto con le modelle nell’autobus racconta delle donne dell’est che andavano e venivano in Italia con i pullman. I Rolex fotografati nell’altarino indiano erano un modo per riflettere sull’estetica degli immigrati che arrivavano in Italia da paesi lontani come Cina e India. Alla mia maniera, ho cercato di raccontare i piccoli e grandi cambiamenti sociali, la vita di tutti i giorni.
Cosa pensa della fotografia digitale e del flusso ininterrotto di immagini cui siamo sottoposti? C’è ancora spazio per lo stupore?
Il passaggio al digitale è stata una sfida sia tecnica che economica: di punto in bianco, tutta l’attrezzatura che avevamo non valeva più nulla, dovevi rinnovare il parco macchine. E in più dovevi imparare una tecnica nuova. In un breve lasso di tempo e con pazienza ho acquisito il nuovo linguaggio. La tecnica, poi, non è così importante, la devi conoscere bene ma dimenticarla per concentrarti sul racconto. Il flusso di cui parla, se lo pensiamo in relazione ai social network e al mondo virtuale, spesso è una cosa infantile, finta, da cui è esclusa la vita vera. In questo flusso si inserisce solo ciò che si vuol mostrare della propria esistenza. E tutto il resto? Meraviglia e stupore, però, ci saranno sempre perché sono legati allo sguardo con cui approcci alle cose.
Se si scorrono le immagini del suo archivio, quale idea ci si può fare della società italiana nel variare delle epoche? In fondo, è un grande «libro visivo» per la memoria: lo sta digitalizzando?
Francamente non saprei come sintetizzare o riassumere un campo così vasto. Ci sarebbe riuscito meglio Umberto Eco. Forse, potrei dire che, negli anni, si è passati dalla socialità all’individualismo. E per quanto riguarda la digitalizzazione del mio archivio, non sono in grado di farlo: richiederebbe tempo e costi enormi. Però aspetto sempre che qualcuno salvi il mio e gli archivi di tutti i fotografi che sono la memoria di questo paese.
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