Commenti

La moda al tempo del jobs act

Va da sé, che si possano avere idee diverse in merito a qualsiasi cosa. Personalmente, ad esempio, ho sempre visto nella moda, un dispositivo di colonizzazione dell’immaginario da parte del […]

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 24 luglio 2015

Va da sé, che si possano avere idee diverse in merito a qualsiasi cosa. Personalmente, ad esempio, ho sempre visto nella moda, un dispositivo di colonizzazione dell’immaginario da parte del capitale, dunque un fenomeno biopolitico, o quanto meno, se non si vuol tirare in ballo Monsieur le Capital ad ogni pie’ sospinto, un deplorevole fenomeno di consumismo conformistico; e non c’è manifashion che possa farmi cambiare idea in proposito, ovvero convincermi che non sia da cretini irresponsabili buttar via un pantalone comprato l’anno prima per sostituirlo con uno del tutto identico ma solo un più largo, o un po’ più stretto, alla caviglia, o di un altro colore.

Dopotutto, non si può mica fare un pantalone con tre gambe, o una giacca con una sola manica! Pertanto, non solo farei fatica ad accostare, su un piano estetico e su un piano politico-sociale, moda e rivoluzione o a scrivere di «moda rivoluzionaria», come fa «il manifesto» a pag. 13 dell’edizione del 21 luglio, ma, addirittura, per non far la fine della coscienza fatua di hegeliana memoria, non degnerei la moda nemmeno di una considerazione critica. Ma, appunto, è forse questione di vedute. E, probabilmente, quelle del manifesto sono più ampie delle mie.

Cionondimeno, se nella policroma società dello spettacolo un po’ di coerenza è ancora lecito pretenderla da chiunque, mi permetterei di darvi, da abbonato e sostenitore, un modesto suggerimento: l’elogio della figura dell’imprenditore e l’apologia del rischio di impresa, per quanto alla moda, lasciateli fare ad altri. Ad un quotidiano comunista, per quanto di ampie vedute, cose del genere, ai tempi del Jobs Act, «stanno male».
Nicola De Lorenzo, Asti

La risposta di Michele Ciavarella

Caro De Lorenzo,
l’importanza della moda sta tutta nella sua lettera-reazione, scritta con un computer prodotto e venduto da chissà quale cooperativa comunista e inviata con una linea Adsl gestita da una comune rivoluzionaria. Va da sé che non c’è ManiFashion che voglia farle cambiare idea: non c’è comsumismo peggiore di quello che si può fare al mercato del cambio delle idee. Il fatto è che a quel comunistone che scrive ManiFashion e qualche altro articolo sulla moda, che il quotidiano comunista il manifesto pubblica pazientemente esponendosi agli attacchi dei suoi più fedeli abbonati-lettori, non gli interessano le misure dei pantaloni, tantomeno quelle delle gonne, e magari avrebbe curiosità per i pantaloni a tre gambe, sebbene abbia già visto dei maglioni trasformisti con tre maniche con i quali, circa tre decenni fa, Issey Miyake ha tentato di rendere tridimensionale un capo piatto.

In quanto a Hegel, ahimè, ha avuto attacchi ben peggiori di quelli che gli può portare la moda che, nella sua storia, si è sempre limitata a leggere, nel bene e nel male, quello che vedeva intorno. Che non era prodotto dai telai e dalle macchine da cucire, ma da libri, politiche e culture. Di certo, alla moda non si può addebitare la nascita del comsumismo, tanto più che anche chi come lei – mi pare di capire – non compra pantaloni ad ogni cambio di stagione, un paio di pantaloni è pur sempre costretto a comprarli quando si consumano quelli che ha. Per vestirsi, certo, non per essere alla moda. Ma così facendo, non crede di comunicare il suo modo di essere? Beh, Manifashion crede che anche la sua sia una moda.

In quanto a Fiorucci. Nel sistema capitalistico ci sono imprenditori illuminati e quelli no. I primi sviluppano idee che fanno bene alla comunità. E ci guadagnano. I secondi guadagnano a prescindere. Fiorucci apparteneva ai primi. Grazie
Michele Ciavarella

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento