Non fu un banco di nebbia né l’imperizia di chi comandava il traghetto Moby Prince la causa della strage avvenuta al largo di Livorno il 10 aprile 1991, nella quale sono morte 140 persone (65 tra i membri dell’equipaggio e 75 passeggeri). In mare c’era una terza nave, almeno secondo le conclusioni dei lavori della «Commissione parlamentare di inchiesta sulle cause del disastro della nave Moby Prince», presieduta dal deputato livornese Andrea Romano (Pd).

IL DOCUMENTO PRESENTATO ieri attacca «i punti fondamentali delle sentenze giudiziarie che in buona sostanza ne attribuivano la responsabilità a chi non poteva più parlare e a una circostanza meteorologica del tutto imprevedibile», cioè l’imperizia colposa del comando del traghetto, tutti morti nella tragedia, e l’improvvisa assenza di visibilità per la comparsa di un banco di nebbia. Punti mai messi in discussione. In particolare le perizie tecniche disposte dalla Commissione parlamentare d’inchiesta escludono che prima della collisione il traghetto abbia avuto «avarie al timone e/o al sistema delle eliche di propulsione, tali da modificarne improvvisamente la rotta». È stato accertato anche «che l’esplosione a bordo del traghetto sia stata un evento avvenuto in seguito alla collisione con la petroliera e che per questo non possa essere ritenuta la causa della turbativa alla navigazione».

«Lo scenario più vero della collisione – ha detto Romano presentando la relazione – coincide con un cambio di rotta improvviso della Moby Prince, più marcato di 15 gradi, nell’arco di 30-40 secondi, che fu provocato dall’improvvisa comparsa di una terza nave». È per evitare questa terza nave che il traghetto «effettuò una manovra di emergenza che la portò a collidere con la petroliera Agip Abruzzo (che apparteneva alla flotta navale della Snam, società del gruppo Eni, ndr) che si trovava in una zona dove non doveva trovarsi e che in base alle nostre indagini e valutazioni era invasa da una nube di vapore acqueo, provocata da una possibile avaria».

La relazione è stata presentata in tutta fretta. I lavori interrotti a causa del termine anticipato della legislatura. Questo fa sì che «pur avendo individuato alcuni interessanti spunti di indagine, la Commissione parlamentare d’inchiesta non è in grado di indicare con certezza quale sia l’identità di questo terzo natante»: lo scioglimento della Camera ha interrotto gli accertamenti disposti. Un passaggio del rapporto finale, però, indica con chiarezza chi potrebbe aiutare a verificare l’identità della nave fantasma: «Questa Commissione ha avuto conferma della valutazione, pienamente condivisibile, fatta dalla Commissione senatoriale in merito al “comportamento di Eni connotato di forte opacità”. Opacità riscontrata, in particolare, in merito alla determinazione della effettiva provenienza della petroliera, del carico realmente trasportato e delle attività svolte durante la sosta nella rada di Livorno; comportamento, dunque, certamente opaco che questa Commissione ritiene di biasimare».

LA COMMISSIONE RICORDA le testimonianze che riferiscono di fumi e bagliori, lingue di fuoco, fiammelle. In questo senso una «frase pronunciata subito dopo l’allarme dal marconista di Agip Abruzzo (“sembra una bettolina quella che ci è venuta addosso”) ha indotto la Commissione ad approfondire la questione». Tra gli elementi c’è anche il rinvenimento di una manichetta (un tubo flessibile) bruciata innestata sull’Agip Abruzzo: «Ciò ha consentito negli anni la formulazione dell’ipotesi che, prima dell’impatto, sulla petroliera la situazione non fosse ordinaria ma fossero invece in corso delle operazioni di travaso di idrocarburi», spiega la relazione.

TRA GLI ELEMENTI DI OPACITÀ si sottolinea anche la scarsa collaborazione dei Paesi esteri a cui era stato chiesto accesso a immagini radar e satellitari (Francia, Federazione Russa e Usa) e delle tv Mediaset e Granducato, a cui è stato richiesto di inviare i filmati dell’epoca. I parlamentari danno conto invece dell’impegno dei familiari delle vittime, «uno straordinario esempio di tenacia civile, soprattutto negli anni in cui il dato dominante sulla tragedia era il silenzio e l’inevitabile accettazione delle verità giudiziarie».