Cultura

La mia Patagonia onirica

La mia Patagonia onirica

Intervista Un incontro con lo scrittore argentino (ma residente in Italia dagli anni '80) Adrián Bravi. Il suo ultimo romanzo «L’idioma di Casilda Moreira» sarà in libreria dal 21, per Exòrma. «Il paese che descrivo ha una topografia immaginifica, è quella dell’infanzia di William H. Hudson, di Juan José Saer ed Ezequiel Martínez Estrada, ma anche la pianura che César Aira scopre attraverso Rugendas, il pittore fulminato che va tra gli indios per dipingere una battaglia»

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 19 febbraio 2019

Sono più o meno vent’anni che Adrián Bravi, nato vicino a Buenos Aires nel 1963 e dagli anni ’80 residente in Italia (dove fa il bibliotecario all’università di Macerata), scrive in italiano, lingua in un certo senso ereditata, ma che, in quanto argentino di seconda generazione, nipote di emigranti marchigiani, aveva ormai perduto. Già nel 2004, tuttavia, è apparso il suo primo romanzo pensato e scritto in italiano, seguito da altri cinque, tutti pubblicati da Nottetempo: storie bizzarre, svagate e insieme profonde, sottilmente umoristiche, che a volte nascono dal ricordo e dall’immagine di una remota Argentina e testimoniano la fecondità di un complesso incrocio linguistico e culturale.
Non c’è da stupirsi, dunque, che la lingua, anzi le lingue (usate, dimenticate, evocate, «luogo» di sentimenti ed emozioni) siano uno dei temi principali dell’ultimo romanzo di Bravi, L’idioma di Casilda Moreira (Exòrma, pp.187, euro 15,50), in cui un giovane studioso lascia le colline delle Marche per raggiungere la Patagonia, dove, gli ha raccontato un suo eccentrico professore, vivono due anziani tehuelches, superstiti di un popolo decimato e disperso, e ultimi a parlare una lingua in procinto di scomparire. Da anni, però, i vecchi non si rivolgono la parola: le frasi usate nei giorni di un amore poi tradito, tanto e tanto tempo prima, per loro sono inutilizzabili, morte insieme a quel sentimento. Ma Annibale è così ostinato che riuscirà a provocare e registrare un loro dialogo, forse l’ultimo… La storia, però, non è tutta qui: tra i molti fili che attraversano un vero e proprio viaggio iniziatico, ci sono un nuovo amore, un trionfale incantesimo, la memoria delle popolazioni indigene, e soprattutto le sconfinate solitudini di una terra leggendaria.

In «La gelosia delle lingue», un suo libro del 2017 a metà tra saggio e racconto autobiografico, si affronta il tema del vivere, e soprattutto dello scrivere, tra (o in) lingue diverse: «L’idioma di Casilda Moreira» continua e approfondisce questa sua riflessione?
Le lingue determinano il nostro modo di essere e di stare al mondo. Non parliamo questa o quella lingua ma siamo in questa o quella lingua e questo crea una tensione sentimentale dentro di noi. Guardiamo il mondo e lo interpretiamo attraverso la lingua. D’altra parte, mi piace pensare, le lingue non hanno frontiere e non appartengono a nessuno, solo a chi le parla e le vive dall’interno. A volte, ho l’impressione che certi ricordi o le nostre storie d’amore non possano vivere con la stessa intensità in due lingue diverse. E questa, in parte, è l’idea che viene fuori da L’idioma di Casilda Moreira: innamorarsi in una lingua e non poterla più usare con la persona amata, una volta che cessa l’amore.

Adrián Bravi

Nel romanzo, i due anziani Casilda e Bartolo sono gli ultimi a parlare una lingua che sparirà con loro. Nella realtà i günün a künä (o teuhelches) stanno riavvicinandosi alla lingua perduta, tanto che Daniel Huircapán ha pubblicato un libro, «Hable günün a yájüch», per favorirne il (ri)apprendimento. Questo tentativo ha un senso oppure hanno ragione Casilda e Bartolo, quasi indifferenti alla scomparsa della propria lingua?
Alla fine degli anni Cinquanta l’antropologo e storico argentino Rodolfo Casamiquela, racconta di aver intervistato l’ultimo parlante di questa lingua, il cacicco José María Kual, morto nel 1960 all’età di 90 anni. Con il suo aiuto, Casamiquela era riuscito a stabilire le basi grammaticali del günün a yajüch (il nome che i günün a künä davano alla propria lingua). Negli ultimi anni è iniziato un processo di ricostruzione linguistica. Mi fa piacere che lei citi Daniel Huircapan, un discendente dei tehuelches, impegnato sul fronte della ricostruzione culturale del suo popolo, perché mi sono confrontato proprio con lui per quanto riguarda la parte linguistica del libro. Nella finzione, mi piace l’idea che Casilda e Bartolo rimangano un po’ indifferenti alla scomparsa della propria lingua (in verità, più che d’indifferenza di tratta d’inconsapevolezza). Nella realtà, invece, sono molto favorevole al recupero del loro mondo, artistico, mitologico, astronomico, ecc. Sono convinto che il vento, la pianura, i fiumi e tutto il resto non possano vivere allo stesso modo senza la lingua parlata per anni dai primi uomini che hanno calpestato quelle terre.

In Argentina la cancellazione delle lingue e delle culture indigene è stata, per varie ragioni, molto più radicale che in altri paesi dell’America latina. Il romanzo sembra anche una sorta di omaggio a un’alterità da lungo tempo sopraffatta, che se ne va portando con sé i propri segreti, come fanno Casilda e Bartolo…
L’Argentina è sempre stato un paese con lo sguardo rivolto all’Europa. Quando, però, si è accorta delle ricchezze che possedeva al suo interno, è iniziata, nella seconda metà dell’ottocento, la famigerata Conquista del desierto, che ha comportato una campagna di appropriazione indebita delle terre (tutt’ora in corso) e il massacro di intere popolazioni (i primi desaparecidos della storia di questo paese) che abitavano da sempre quei luoghi, e di conseguenza la cancellazione di lingue, di sguardi sul mondo, ecc. Quando a scuola si studiavano gli indios non si riusciva mai a fare una seria distinzione tra le varie etnie, se ne parlava in generale, anche questa negazione faceva parte di un indottrinamento. Nel romanzo ho voluto parlare di un popolo quasi scomparso e, nel mio piccolo, provare a restituirgli la sua dignità. Sì, in parte il libro l’ho pensato anche come un omaggio a quella gente che non riusciva e non voleva identificarsi con lo stato, liberi dalla soggezione del mercato e dell’autorità. È stato un modo di fare i conti con la storia e con quel paesaggio che fa parte di un immaginario comune.

Sin dal XVI secolo, si sono accumulati gli scritti sulla Patagonia di esploratori e studiosi, ma anche quelli di cronisti e scrittori, che hanno trasformato questa zona del mondo in un «luogo dell’immaginazione». Che Patagonia è la sua? C’è qualche riflesso di narrazioni altrui, o si tratta di un territorio narrativo del tutto personale?
Ho sempre pensato alla Patagonia come a un grande laboratorio onirico. «America è stata un’invenzione dei poeti», segnalava Alfonso Reyes in Ultima Tule, per sintetizzare quella inclinazione verso il fantastico che hanno manifestato i primi cronisti. La stessa cosa potrebbe dirsi dell’immensità della Patagonia. Credo che possiamo descriverla meglio per via negationis, come una sorta di teologia negativa, e trasformare la sua geografia in un’unica cosa con l’immaginazione. «C’è un’ora della sera in cui la pianura sta per dire qualcosa; non la dice mai, o forse la dice infinitamente e non lo capiamo, o lo capiamo ma è intraducibile come una musica», dice Borges. Insomma, la mia Patagonia, questa topografia immaginifica, è quella dell’infanzia di William H. Hudson, quella di Juan José Saer ed Ezequiel Martínez Estrada, ma anche la pianura che César Aira scopre attraverso Rugendas, il pittore fulminato che va tra gli indios per dipingere una battaglia.

Annibale, il protagonista, è deciso a far dialogare Casilda e Bartolo in nome della scienza, e pur di riuscirci ricorre all’inganno. Ma l’ultima pagina ci offre un’altra possibilità di lettura che cambia (o svela) il senso del viaggio del giovane studioso di etnolinguistica…
Nel libro si incontrano due concezioni diverse del mondo: da un lato, la visione magica di Bartolo e dall’altro, quella scientifica di Annibale. Bartolo osserva la pianura in groppa al suo cavallo, sempre chiuso nel recinto, e vede o immagina lo spazio mitico degli antenati, dove l’uomo e la natura formavano un corpo unico, quasi inscindibile. Pensa ancora al posto dove crescono i nomi e spera di essere sepolto insieme al cavallo per poterlo cavalcare dopo la morte e raggiungere il desiderato sud.
Annibale, invece, da europeo qual è, ha un approccio opposto, distaccato, mi verrebbe da dire quasi «museale», di chi vuole appropriarsi di una lingua per conservarla. Insomma, uno è legato all’oralità o alla voce che sfiora la pianura, l’altro alla scrittura e al suo alfabeto fonetico. E alla fine si scopre che anche il günün a yajüch, come tutte le lingue, serba dentro di sé una sua magia, che si dispiega in un incantesimo. Il libro, in verità, è anche e soprattutto la storia di un viaggio che l’eroe intraprende non verso un luogo, anche se il luogo c’è ed è lontanissimo, ma verso una lingua che vorrebbe salvare. E, come in tutti i viaggi, durante il percorso accadono (e cambiano) tante cose.

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