In estate non piove mai anche se le immagini ci mostrano un diluvio torrenziale. Ma quella di cui parla Kamal Aljafari era stata un’estate strana, insolita, An Unusual Summer come dice il titolo del suo nuovo film realizzato interamente con le immagini registrate da una telecamera di sorveglianza installata davanti alla casa dei genitori, a Ramla, nell’unico quartiere palestinese rimasto in città dopo l’invasione israeliana del 1948.
Tutto comincia quando il padre del regista viene preso di mira da un anonimo che con puntiglio si accanisce contro la sua automobile distruggendone a sassate i vetri. Chi può mai essere? E perché? A distanza di anni Kamal riprende in mano quei materiali e vi intreccia nomi, voci, parole, gesti del quotidiano, anche i più banali per comporre il racconto di un luogo e dei suoi abitanti, il quartiere palestinese di Ramla, appunto, dove il regista che oggi vive a Berlino è nato e dove vive ancora la sua famiglia, quel quartiere che gli israeliani continuano a chiamare «il Ghetto».
Nello spazio limitato che è l’occhio della telecamera passano la mamma, la sorella, il fratello di Kamal quando escono al mattino per andare al lavoro; il padre che si dispera di fronte a un nuovo danno, un vicino che attraversa il «frame» in bicicletta, due ragazzine che raccolgono un frutto. Fuori campo la voce di una bimba chiosa: «Siamo cresciute, eravamo più piccoline, tutti diventano vecchi…», mentre il giorno scivola nella notte silenziosa e buia, attraversata da sagome confuse, un gatto sbuca all’improvviso, all’alba il via vai ricomincia piano. E in quella che diventa una narrazione le sagome perdono la freddezza del controllo, si fanno personaggi di una «detective story» punteggiata da esistenze, musica, suoni, a cui si intrecciano altre storie che portano un po’ più lontano, a un albero di fico su cui da ragazzino Kamal saliva per gustarne i frutti dolci distrutto dai bulldozer, ai campi dei profughi palestinesi dove nel 1967 suo padre cercava il fratello, ai tanti altri palestinesi che prima della Nakba abitavano il Medioriente, alla violenza che da quel 1948 continua oggi, feroce nella sua ordinarietà quasi che fosse un diritto agli occhi del mondo. E lui, Kamal, non prende mai il taxi dall’aeroporto verso casa né vuole che i suoi lo accompagnino per essere fermati, umiliati una volta ancora.
An Unusual Summer è stato presentato nel concorso Burning Light del festival di Nyon Visions du Réel in corso online fino al 2 maggio con ottimi risultati, molti sold out, circa diecimila account per accedere alla piattaforma creati solo nelle prime 48 ore. Una scommessa che la direttrice, Emilie Bujes e il suo gruppo di lavoro hanno vinto offrendo anche ai registi selezionati la possibilità di un pubblico più vasto. «Ho ricevuto messaggi sul mio film da Betlemme a Sidney, persone che non sarebbero potute venire a Nyon e che sono felice di avere raggiunto» dice Kamal al telefono da Berlino.

Come hai avuto l’idea di questo film? O meglio quando hai pensato che le immagini della telecamera di sorveglianza potevano diventare un film?
Ho cominciato a guardare i nastri e il materiale mi sembrava un tesoro inaspettato, non capita tutti i giorni che tuo padre decida di installare una telecamera di sorveglianza davanti a casa. Ero affascinato dalla possibilità che la telecamera aveva avuto di catturare la vita che gli scorreva davanti in quell’angolo preciso, e mi sembrava che questo fosse il punto di partenza più giusto per fare un film sul quartiere dove ero nato, in cui entrassero la memoria e le emozioni, anche se l’intenzione che aveva portato a ciò era stata trovare la persona che gettava la pietra sulla macchina di mio padre.

Possiamo definire «An Unusual Summer» un film del dispositivo. In che modo hai costruito il tuo racconto?
L’ho immaginato come una sorta di investigazione che si allargava alla vita quotidiana del quartiere, le persone che passavano e ripassavano davanti alla telecamera erano un po’ come gli attori che provano la parte fino a diventare dei personaggi, i protagonisti insieme al luogo di una storia che dialogava coi sentimenti, le memorie, i non detti in una dimensione universale. Molti di loro li conoscevo ma osservandoli lì ne ho colto espressioni diverse, mai viste prima. C’è qualcosa di sorprendente nella natura della gente che non affiora quando si gira un film che sia di fiction o documentario nei quali la cosa più importante è sempre se una scena funziona o no. Qui invece siamo davanti a un modo diverso di guardare i fatti, la sfida si sposta nel processo del filmare in sé.

In che senso?
È come se avessimo una macchina da presa automatica, che procede senza influenza umana, l’abilità di cogliere quanto accade è tutta del mezzo. L’umano si deve chiedere come selezionare i materiali per creare una struttura in modo libero, nella forma di un poema.
Le immagini delle telecamere di sorveglianza portano in sé però anche una logica del controllo, qualcosa che sovrasta le nostre esistenze.
Questi materiali risalgono al 2006, per me rappresentano un archivio storico, non vedo problemi morali nell’utilizzarli. Inoltre i volti delle persone sono sfocati, non si riconoscono e questo garantisce una distanza in tutto il film col rispetto e la grazia di non essere mai invasivi. L’obiettivo della telecamera era trovare chi aveva preso di mira l’auto di mio padre, poi sono affiorate altre cose che non si volevano cercare; quasi che la telecamera avesse intenzioni proprie. Ma questo è un po’ il senso della vita, ogni storia è come un viaggio.

Visions du Réel ha scelto di spostare l’edizione 2020 online. Cosa pensi di questa possibilità per i festival?
Credo che sia molto interessante specie per i registi come me il cui riferimento principale sono i festival che però consentono una visibilità limitata alla location. Stavolta invece ho ricevuto reazioni da ogni parte del mondo. Credo che sia una ipotesi da considerare anche in futuro accanto alla dimensione «fisica» del festival. Questa pandemia ci ha portati a cambiare molte cose nella nostra vita e forse la modalità della presentazione ai festival di film come il mio può essere una di queste. Potremmo considerare l’uso della piattaforma anche quando il virus sarà finito permettendo così una diversa circolazione anche a quei lavori low budget come il mio che non avrebbero mai accesso alle grandi piattaforme dello streaming. Chissà che in futuro non potremo lavorare su nuove strategie con cui creare film e arte rendendoli indispensabili.

La vita del quartiere, del «Ghetto» ci parla anche dell’occupazione israeliana, della sua storia che non è mai finita.
È il ritratto di una comunità che vive ai margini, a cui nessuno guarda perché non viene considerata interessante. Quando nel 1948 Israele l’ha occupata Ramla era abitata per il 90% da palestinesi che sono fuggiti, ne sono rimasti pochissimi tutti rinchiusi in questo quartiere. Ma sembra quasi nulla se si pensa a chi vive a Gaza completamente tagliato fuori, prigionieri senza luce, acqua, ci sono ragazzi di vent’anni che non sono mai usciti di lì. Abbiamo dei familiari da parte di mia madre che non vediamo da decenni. Tutto questo va contro ogni diritto umano ma la politica di Israele non può mai essere criticata, altrimenti vieni accusato subito di essere antisemita. E poco importa se è uno stato autoritario, che ha esportato i suoi metodi, i suoi muri ovunque, persino in Brasile, il pensiero critico oggi ha sempre meno spazio.