Gli avvoltoi sono sui rami, immobili nello scatto fotografico che si espande sulla parete dell’edificio concepito da Piero Gilardi. La natura entra nell’immagine, la lambisce, la asseconda restituendo l’idea della vocazione stessa del PAV – Parco Arte Vivente, sorto in un’ex discarica industriale di Torino. Il centro d’arte contemporanea diretto da Enrico Bonanate è luogo d’incontro e laboratorio, territorio di dialogo con natura, ecologia e biotecnologia. Un contenitore/contenuto perfetto per ospitare la mostra di Ravi Agarwal Ecologies of Loss, a cura di Marco Scotini (fino al 9 giugno), che esplora le relazioni conflittuali tra capitalismo e tutela degli ecosistemi. Artista, fotografo, attivista ambientalista, scrittore e curatore, Ravi Agarwal (New Delhi 1958, vive a Delhi) – le cui opere (fotografie, video e installazioni) sono state esposte in numerose rassegne internazionali. Extinct della serie Publihed Diaries (2008) è un’immagine-simbolo della sua poetica: «Fino al 1985-86 in Asia meridionale c’erano quasi 10 mila avvoltoi. Ne ho fotografati moltissimi» – spiega. «La foto alle mie spalle è stata scattata nella foresta di Delhi Ridge a New Delhi che allora era piena di nidi di avvoltoi. In dieci anni la scomparsa degli avvoltoi ha raggiunto il 95%, si tratta della più grande estinzione di massa documentata dall’uomo. Gli avvoltoi muoiono perché ingeriscono, attraverso le carcasse degli animali d’allevamento, un farmaco apparentemente innocuo che distrugge i loro reni, l’anti-infiammatorio diclofenac che viene somministrato in ambito veterinario agli animali d’allevamento. Ci sono voluti dieci anni perché il governo indiano proibisse l’uso del diclofenac, in quanto l’industria chimica e farmaceutica ha sempre combattuto i tentativi di regolamentarizzazione del suo uso. Una storia, quella dell’estinzione degli avvoltoi asiatici, che coincide con quella del potere politico e fiscale dei nostri processi economici e industriali».
Questi rapaci che possono raggiungere i due metri e mezzo di apertura alare, sono fondamentali per l’ecosistema perché mangiando le carcasse degli animali selvatici e dei cani randagi contribuiscono a limitare la diffusione di batteri e funghi nel suolo e nell’acqua. Agarwal ricorda anche la loro pregnanza di animali sacri nel Ramayana, nel Maha-bharata e in tutti gli antichi testi della cultura vedica, nonché presso altre antichissime culture come quella egizia. La loro scomparsa è un problema anche per la comunità religiosa dei Parsi, la minoranza di seguaci dello zoroastrismo, soprattutto nell’area di Mumbai, che affida agli avvoltoi un ruolo fondamentale nelle pratiche funerarie della «torre del silenzio». Il rituale prevede che i corpi dei defunti vengano esposti all’aria per essere mangiati dagli avvoltoi. Il cadavere è considerato impuro, perché subito dopo la morte viene invaso da demoni e spiriti che rischiano di contaminare gli uomini e gli elementi sacri: fuoco terra e acqua. «E’ un’affascinante storia di distruzione, in cui si procede senza sapere quale sarà la direzione futura». Per Agarwal la natura non è un concetto astratto ed è sempre collegata all’ambiente, all’ecologia, al lavoro, all’economia. L’arte per lui è coscienza politica. «Come fotografo posso guardare alle forme in una certa maniera» – aggiunge l’artista che negli anni ha mantenuto invariato il suo interesse per la fotografia formale di Bernd e Hilla Becher, Thomas Demand, Jeff Wall, Andreas Gursky e Allan Sekula in Fish Story (1989-95). «Non creo immagini, osservo la realtà».

La macchina fotografica come un quaderno d’appunti?

Non solo. La macchina fotografica è ciò che mi permette di relazionarmi al mondo. L’apparecchio cattura fisicamente le immagini, ma io penso sempre in modo visuale. Fotografo ogni cosa con la mia mente. Quando abbandonai la mia carriera professionale d’ingegnere chimico decisi di continuare a fotografare nella piena libertà. Non mi interessava entrare nei meccanismi del successo, del potere e del denaro. Iniziai a lavorare con i bambini della scuola. Organizzavo dei gruppi che portavo a camminare nelle foreste intorno a New Delhi che conoscevo molto bene. Poi, quando un giorno ho scoperto che per lo sviluppo urbano volevano tagliare le foreste, pur non essendo un attivista iniziai a manifestare contro la distruzione. Ancora una volta non c’era nulla di programmato, lasciavo solo che le cose in cui credevo prendessero una direzione. Ogni cosa era collegata all’altra.

Difficile immaginare una città come New Delhi, tra le più inquinate del mondo, con così grandi distese di verde.

A Delhi ci sono tante foreste. Il paesaggio in cui sono cresciuto era bellissimo. Solo dopo aver iniziato a esplorare qualcosa, scopri quanto è entusiasmante. Il mio approccio ecologico, che è la pratica che porto avanti dal 2004, nasce dall’interrogarmi sulla natura, ovvero tutto quello che l’ingegneria non mi aveva insegnato: la storia delle idee, la cultura, il modo di vivere della gente. Un nuovo mondo di conoscenza della società. Pormi domande critiche fa parte della mia natura, ma spesso solo dopo aver fotografato, a distanza di tempo, realizzo ciò che ho fotografato. Per esempio, a un certo punto la mia fotografia è diventata veramente spoglia, come svuotata, senza la presenza umana, una pura documentazione delle forme che, in qualche modo, si collega alla visione modernista dei Becher, che mi ha fortemente influenzato, e all’indagine topografica.

Anche la figura di tua sorella maggiore Bina, nota economista femminista, è stata di grande ispirazione. In famiglia si respirava un’aria liberale?

Provengo da una tipica famiglia indiana. I miei genitori sono originari del villaggio di Shekawati in Rajasthan, dove abbiamo ancora una casa. Mia mamma proviene da una famiglia benestante, mentre mio padre da una famiglia di contadini. Poterono sposarsi, abbattendo le barriere dello status, perché mio padre fu il primo della sua famiglia a lavorare per il governo. Era un uomo molto intelligente. A tavola si parlava di George Bernard Shaw. Mia sorella dipingeva e scriveva poesie e, malgrado fossero molto cari, lui comprava libri di pittura a mia sorella, e per me libri di fotografia che ancora conservo. I libri sono stati anche il mio primo approccio con la pittura e con l’arte europea. Solo quando avevo trent’anni sono andato per la prima volta in Europa. Ancora ricordo il senso di stupore quando visitai il Museo Van Gogh e di Rembrandt. Negli anni ’70 l’India era un paese socialista che guardava al futuro. La tradizione era presente ma non enfatizzata. Si aveva coscienza di vivere nella contemporaneità. Era un momento veramente speciale. Le persone della mia generazione sono cresciute con i valori liberali e per lo più anticapitalisti. Questa non è una riflessione nostalgica, ma una constatazione realistica rispetto all’India di oggi.

Proprio sul contrasto tra passato e presente hai incentrato il nuovo lavoro «The Desert of the Anthropocene» che sarà presentato all’India Art Fair 2020…

Ho iniziato The Desert of the Anthropocene nella casa completamente abbandonata dei miei nonni materni a Shekawati. Una grande dimora classica di 90 stanze che risale a duecento anni fa. Ho memoria, quando vi andavamo durante le vacanze estive, della stanza dove mia nonna era solita vivere. Tutt’intorno il paesaggio sembra lo stesso, ma ora vi è un’area dove fanno test nucleari e l’acqua non c’è più. Il progetto è una riflessione su quello che è stato e quello che sarà. Sull’idea di abbandono e reinsediamento, un concetto che si estende all’economia locale. Un luogo che viene nuovamente abitato, ma in una maniera completamente diversa.

Certi aspetti della ritualità induista legati all’acqua – penso ai puja che ho visto fare a Varkala South Beach e alle cremazioni nel Gange a Varanasi – sono causa di inquinamento? 

Penso che, nelle diverse forme, tutte le tradizioni religiose siano collegate con l’acqua. In India c’è tutta una mitologia. L’idea cosmica dell’acqua proviene dalla testa di Shiva, come pure la natura femminile del fiume. Rispetto alla questione dell’inquinamento è così, perché se da una parte gli indù si riferiscono all’acqua al livello cosmico, dall’altro la sporcano. Per fortuna con i mezzi tecnici si può pulire quel tipo di inquinamento. E’ ben più difficile, invece, ripulire un sistema come quello induista delle caste che considera impuri, quindi sporchi e contaminati, gli esseri umani che vengono chiamati «intoccabili». Questo, per me, è inaccettabile. E’ un problema più grave dell’inquinamento fisico.

Sei il fondatore della Toxics Link. Che obiettivi ha questa ONG ambientalista?

Lavoriamo in modo pratico affrontando problemi diversi, tra cui l’impatto dei prodotti chimici sulla salute, rifiuti e sostenibilità e iniziative green. Sono argomenti specifici e la profonda conoscenza che abbiamo della materia ci consente di protestare e combattere. Credo che la cosa più importante di una ONG sia il maggior potere che ha rispetto al singolo individuo. Le istituzioni devono essere sempre presenti nel dibattito. Ci sono voluti trent’anni per farci guadagnare la credibilità, che è importante quanto la perseveranza.