La metamorfosi dell’avvocato
Quattordici mesi a palazzo Chigi. Dall’esordio per nulla trionfale, quando spiegava al parlamento che il contratto di governo lo aveva letto tutto, all’insofferenza per i due guardiani che aveva accanto. La strategia dell’attesa per vedere i suoi vice abbattersi a vicenda. Il leghista è finito fuori gioco. L’ultima spinta al grillino può dargli la piena indipendenza
Quattordici mesi a palazzo Chigi. Dall’esordio per nulla trionfale, quando spiegava al parlamento che il contratto di governo lo aveva letto tutto, all’insofferenza per i due guardiani che aveva accanto. La strategia dell’attesa per vedere i suoi vice abbattersi a vicenda. Il leghista è finito fuori gioco. L’ultima spinta al grillino può dargli la piena indipendenza
Dal giorno in cui l’hanno mandato a palazzo Chigi gli sono stati addosso. E gli sono stati davanti. Luigi Di Maio e Matteo Salvini circondavano Giuseppe Conte anche nell’ultima sua apparizione in parlamento – l’ultima fin qui dobbiamo aggiungere. Si erano solo scambiati di posto. Il 20 agosto scorso Salvini era alla destra del premier, cupo a prendere metaforici schiaffi, mentre Di Maio, alla sinistra, scivolava in una precoce dissolvenza. Le immagini di quel 6 giugno 2018 ce li rimandano invece molto sorridenti, nello stesso senato, a poltrone invertite. Quello preoccupato sembra proprio Conte, intralciato dal peso dei due vicini. Si incagliava a quel tempo il presidente del Consiglio, l’esordio non fu trionfale come l’epilogo.
Prima il curriculum da Vaudeville in cui aveva segnato anche i passaggi al bar delle università americane, poi una gaffe atroce su Piersanti Mattarella, citato nel discorso della fiducia come «un congiunto del presidente della Repubblica, non ricordo esattamente», poi il debutto internazionale al G7 in Canada e Rocco Casalino, il portavoce imposto da Casaleggio, che se lo porta via per un braccio mentre sta parlando con i giornalisti.
Aveva un problema, Giuseppe Conte. Nessuno sapeva chi fosse quando assunse l’incarico di difenderci tutti, nello stesso studio del Quirinale dove torna oggi. «Sarò l’avvocato difensore del popolo italiano», il famoso annuncio. Doveva però prendere fiato e sgusciare via dal peso dei due vice premier per farsi notare. Lo faceva pochissimo, confidando sui tempi lunghi che come si vede gli danno ragione. Quei due si sono eliminati a vicenda dopo mesi di lotta libera. Qualche sberla è arrivata anche a lui. Ma Conte, come Totò, non essendo Pasquale non ha reagito. Se non alla fine.
La sua prima preoccupazione fu quella di rassicurare il parlamento: il «contratto di governo» che gli avevano affidato lo aveva letto e, in qualche parte, persino scritto. I 5 Stelle lo avevano infatti scelto come ministro della pubblica amministrazione, il suo nome era su quella fantasiosa lista che Di Maio consegnò al Quirinale, quando il premier doveva essere lui. Mentre adesso è Di Maio a sgomitare per farsi notare: «Conte lo abbiamo scelto io e Bonafede, è una perla rara, siamo orgogliosi». Non è che Trump arriva adesso…
Nelle prime riunioni del Consiglio dei ministri colpiva tutti per la sua precisione. Lo descrivevano chino sui dossier. Li leggeva. «Giuseppe è una persona scrupolosa, uno puntiglioso», raccontavano i due vice e si capiva che era un complimento a metà. Cominciarono a ricordargli che, insomma, se stava lì era perché ce lo avevano messo loro. Di Maio per esempio non gradì che Conte avesse fatto pace con Macron prima di lui. Salvini non apprezzò quel video rubato a Davos dove lo si vedeva ridere accanto ad Angela Merkel. E parlare, parlare male di lui. «Salvini è contro tutti… ma Angela non ti preoccupare io sono molto determinato». Ha poco da dire adesso il leghista che «Conte non mi ha mai detto in faccia le cose che mi ha detto in senato». Alle spalle sicuramente sì, e lui lo sapeva. Quando il video uscì, Salvini non si scompose: «Mantengo la massima stima del presidente». Adesso spamma in giro il video come prova del complotto.
La verità è che Salvini se l’è cercata. Fino a che non ha cominciato ad attaccare i suoi alleati ogni giorno, cominciando nella campagna per le elezioni europee, Conte non gli aveva dato pensieri. Glieli aveva anzi tolti, come quando si offrì di correggergli lui stesso la memoria difensiva per la giunta del senato sul caso della nave Diciotti. Aggiunse anche una lettera in cui rivendicava come condivisa, anzi proprio sua, la scelta di chiudere i porti: «Massimo rigore». E se dava un dispiacere alla Lega, «oggi mi batterei contro la Tav», era un dispiacere innocuo: «La Tav costa più fermarla che farla». Erano i tempi in cui il presidente diceva «non ho alcun grillo per la testa», minuscolo, e «a palazzo Chigi farò un solo giro».
A marzo, poi, la prima litigata in pubblico. Da un fatto piccolo, una polemica sulle adozioni, uno scazzo enorme. Come succede quando uno non ne può più ed esplode. Conte fa una nota per smentire Salvini e ci aggiunge due righe: «Bisogna rimboccarsi le maniche e lavorare nei ministeri tutti i giorni e studiare le cose prima di parlare, altrimenti si fa solo confusione». Il tema di chi sta in spiaggia e chi sta in ufficio, come si vede, era già lì. E poi le discussioni impossibili in Consiglio dei ministri sui decreti approvati sempre «salvo intese», cioè rinviati. Il caso Siri, revocato infine da Conte e Salvini a dirgli in faccia che non era più garante. Siamo alla vigilia del voto europeo e l’avvocato è definitivamente sbocciato. «Salvini ha una grande capacità di comunicazione – dice al Pais – ma se all’estero si crede che nel governo comandi lui è una vostra illusione ottica». Rischia allora di schiacciarsi sui 5 Stelle, ma Conte non lo incastri facilmente. Fa una conferenza stampa – ne fa poche, in genere non accetta domande – e spiega che lui non si può considerare in quota, «non sono mai stato iscritto ai 5 Stelle». Lo ha detto anche a Zingaretti, l’altra sera, quando il segretario del Pd gli ha spiegato che significa che siano stati i grillini ad averlo imposto ancora a palazzo Chigi.
Ci avava provato dopo le elezioni europee, Conte, a mettere un punto. Aveva chiamato quei due nel suo studio. Facile, anche loro avevano voluto uno studio a palazzo Chigi, allo stesso piano. Aveva detto loro che continuando a litigare non sarebbero andati lontano. «Dobbiamo capire su quali dossier possiamo andare avanti e come. Poi parlerò agli italiani». Il governo poteva cadere allora, ma fu Di Maio a fermarlo. «Ho bisogno di tempo per far elaborare al Movimento la sconfitta elettorale», disse. E quindi niente, altri due mesi di sofferenza. C’era bisogno che fosse Salvini a mollarlo. A liberarlo. Tornato in senato, il presidente non ha chiesto più permesso. Non si è giustificato e nemmeno incagliato. Ha picchiato. E così è tornato. Ora deve solo di liberarsi di quell’altro.
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