Riannodare i fili di una memoria spezzata, interrotta, negata con la violenza e celata nel dolore, restituendo tutto il loro spessore a figure care, a pezzi consistenti di una biografia affettiva piena di vuoti da colmare, di pagine del cuore mancanti o strappate. E, allo stesso tempo, attraverso questa stessa impervia via, ricostruire un frammento decisivo, costituente anche se soprattutto in negativo, di una storia che la coscienza collettiva del paese, spesso altrettanto carente, deficitaria, latitante quanto all’assunzione di responsabilità sul proprio, per altro incancellabile, passato, continua a tenere ai margini della riflessione pubblica.

Non è né agevole né tantomeno indolore il compito che si è assunta Lia Tagliacozzo nello scrivere, e ancor prima probabilmente nel pensare, un libro come La generazione del deserto (Manni, pp. 252, euro 16) che attraverso le vicende di due famiglie ebraiche, quella materna e paterna della stessa autrice, racconta l’Italia delle leggi razziali, del contributo offerto dalla «brava gente» al crimine della Shoah, ma anche le storie di «giusti» che salvarono vite e destini.

L’indagine non riguarda però solo il passato, o i pesanti interrogativi che non smette di porre al presente, ma prima di tutto il senso di un’«identità», quella cui fa riferimento lo stesso titolo dell’opera, che si è dovuta riconoscere quasi da sé, in assenza di tracce fino in fondo tangibili che ne accompagnassero il cammino: la generazione di ebrei italiani nati dopo la fine della Seconda guerra mondiale.

«ILLEGITTIMI perché abbiamo la vita regalata dal caso. E lo sappiamo», sottolinea Tagliacozzo, perché «una delle nostre madri ricorda di uno stivale che l’ha scostata dalla fila che l’avrebbe condotta al treno. Uno dei nostri padri deve la vita al contrabbandiere che l’ha caricato sulle spalle prima di giungere al valico di confine». E che per questo – come l’autrice non ha smesso di mettere in evidenza fin dai tempi di Melagrana (Castelvecchi, 2005), la sua inchiesta che a tale generazione riservava un primo illuminante sguardo – ha messo più tempo nel lasciarsi alle spalle l’Egitto della schiavitù e «creare uno spazio interiore che accolga la libertà promessa dalla Terra promessa».

LA MEMORIA RITROVATA scandagliando tra i timidi ricordi familiari, o più spesso vincendo quella «cospirazione del silenzio» messa in atto dai sopravvissuti per difendere figli e nipoti, e ancora avventurandosi tra vecchi armadi e qualche rara fotografia ingiallita, ma prima di tutto in un album dei sentimenti dove le pagine mancanti si riempiono di emozioni sofferte e pensieri lieti che ricompongono un diario dell’anima anche quando la certezza dei dettagli sfugge, è parte determinante di quell’attraversamento del deserto che anche per questo esito volge definitivamente al termine.

LIA TAGLIACOZZO lo afferma implicitamente spiegando il senso più profondo del suo lavoro. «La memoria – scrive a proposito della mancanza di tracce «nei libri» della sua amatissima nonna materna, la fiorentina «nonna Micia», come di gran parte degli ebrei italiani su cui si abbatterono le norme fasciste introdotte dal fascismo nel 1938 – ha in comune con la ragione la necessità di creare un discorso logico, di produrre sequenze comprensibili». Perciò, «per dare senso e significato ad un racconto la nostra memoria ha bisogno di riempire i vuoti. La storia in questo aiuta a identificare ipotesi verosimili, concatenazioni compatibili con la realtà. Ma la Storia non narra della mia famiglia (…). Resta a me cercare di riempire quei vuoti».

Un percorso che per chi ha «l’onere di avere ben tre famiglie con tre diverse storie delle persecuzioni. Tre memorie diverse. Tre lutti», si traduce in uno scavo dettagliato, millimetrico si sarebbe portati a dire, che colmi quei vuoti di volti e gesti, di sguardi e azioni, a ricomporre un mondo perduto, a volte ritrovato, scampato o travolto dall’odio e dagli eventi.

Non si tratta però «soltanto» di mettere uno dopo l’altro gli elementi noti, cercando di immaginare il resto o di ricostruirne una versione plausibile, compito che l’autrice si assume svolgendolo con l’attenta e dolorosa determinazione di chi indaga sulla perdita, la scomparsa, il pericolo del vuoto. Come nel caso di Ada, destinata a diventare la zia paterna di Lia Tagliacozzo se fosse sopravvissuta ad Auschwitz dopo essere stata catturata dai tedeschi nella stessa casa in cui l’autrice abita oggi. «Il pensiero fatica a soffermarsi su di lei perché di lei non so nulla a parte della sua morte. So che era una bambina di otto anni ma non che colore le piacesse, come volesse vestirsi, se era brava a scuola, se litigava con i fratelli. Di lei, come degli altri deportati della mia famiglia so solo come sono morti. In questo l’infamia nazista ha vinto: non ha cancellato la memoria della loro morte, ma quella della loro vita. Lo sforzo di immaginazione è forse, in questo caso, l’unico atto di ribellione postuma possibile».

MA DI UN SENSO PROFONDO e irriducibile di rivolta è permeato l’intero libro dove alla ricostruzione delle vicende familiari, di ciò che subirono gli ebrei italiani lungo i cinque anni che separano il 1938 dal 1943, si alternano gli interrogativi posti, da chi è abituato a frequentare le scuole italiane per spiegare ai più giovani cosa furono le persecuzioni razziali e la Shoah, al presente. Non pensa infatti Tagliacozzo che il ricordo e la commemorazione abbiano ormai soppiantato il tempo del lutto. «Forse noi adesso saremmo pronti ma non lo è il mondo che ci circonda e non gli faremo la grazia di rinchiuderci a piangere i nostri morti nel silenzio. Mai come oggi il racconto della frastagliata storia di ciò che ha preceduto l’avvento della democrazia nel nostro paese è dovere civile».