Cultura

La memoria perduta nei giorni senza storia

La memoria perduta nei giorni senza storiaUn'opera dello street artist francese Levalet

Philippe Georget Intervista allo scrittore francese sul suo noir «La stagione dei tradimenti. Un autore che ama le regioni deindustrializzate o quelle contadine alla periferia della Republique. «Il noir aiuta a raccontare credibilmente i "crimini dell’anima" e le più profonde e laceranti ferite sociali. Per questo è un potente genere letterario»

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 10 maggio 2017

Questa volta la «scena del crimine» lo seguirà in ogni circostanza. Il tenente della polizia Gilles Sebag ci finirà dentro mani e piedi fin dall’inizio perché la serie di omicidi che scuote Perpignan sembra essere originata da un desiderio di vendetta che muove dal tradimento e dall’infedeltà. Esattamente ciò di cui lo stesso Sebag ha appena scoperto di essere vittima imbattendosi quasi per caso in un sms che sua moglie Claire ha ricevuto dal proprio amante. Nuovo capitolo delle indagini del poliziotto catalano creato da Philippe Georget, La stagione dei tradimenti, (e/o, pp. 442, euro 18) trasporta il lettore in un clima cupo di sospetti e incertezze che sembra evocare Il Corvo, il celebre film girato nel 1943 da uno dei maestri del noir francese, Henri-Georges Clouzot che dava corpo all’ipocrisia e alla meschinità della provincia francese.

Georget, scrittore e giornalista, nonché appassionato viaggiatore, nato a Épinay-sur-Seine, nella banlieue parigina, nel 1963, ma stabilitosi da molti anni nella città catalana in cui ha ambientato gran parte delle sue storie, non ama prendersi troppo sul serio malgrado i suoi romanzi, dei quali nel nostro paese e/o ha già pubblicato D’estate i gatti si annoiano, In autunno cova la vendetta e Il paradosso dell’aquilone, che gli sono valsi numerosi premi, rappresentino una delle testimonianze più fresche e vitali del nuovo polar transalpino, capace di raccontare credibilmente i «crimini dell’anima» come le più profonde e laceranti ferite sociali.

Ne «La stagione dei tradimenti» si incontrano temi più intimi e personali rispetto a quelli trattati in alcuni dei suoi precedenti romanzi. Anche se proprio la nozione di «tradimento» è al centro del dibattito politico più recente. In particolare attraverso la ripetuta evocazione del tradimento che le élite avrebbero compiuto nei confronti del popolo. Un sentimento individuale si trasforma così in un fenomeno collettivo?
Chi non è mai stato vittima di qualche sorta di tradimento, piccolo o grande che sia? Nessuno. E chi, a sua volta, non ha mai tradito in qualche modo qualcuno o qualcosa? Anche in questo caso la risposta è nessuno, anche se alcuni di noi non lo ammetteranno mai.
D’altronde, i tradimenti più frequenti sono probabilmente quelli che infliggiamo a noi stessi. Solo che sono anche quelli che fingiamo di ignorare più facilmente, perché ne siamo allo stesso tempo vittima e colpevole, nonché spesso l’unico testimone. Eppure, malgrado cerchiamo di fare come se niente fosse accaduto, o forse proprio per questo, sono proprio questo genere di tradimenti che segnano di più le nostre vite.

I suoi romanzi sono perlopiù ambientati nella regione catalana del Roussilon, nel sudovest del paese. La provincia che lei descrive non ha però quasi mai l’aspetto inquietante di quella di Simenon. Eppure, proprio nella sua città, Perpignan, Marine Le Pen è arrivata in testa al primo turno delle presidenziali. La minaccia è ben nascosta sotto un aspetto tranquillo?
Forse si, visto che gli elettori del Front National sono persone come tutte le altre. Né più tristi, né più felici di lei o me o del resto dei francesi. E, talvolta, a condizione di non toccare temi come l’immigrazione o la sicurezza, si possono perfino scambiare con loro quattro chiacchiere in modo piacevole. Non marciano per strada in uniforme bruna e non credo abbiano dei particolari segni distintivi come le orecchie rigide degli alieni nella serie tv anni Sessanta degli Invasori. Perciò, il risultato delle elezioni, a Perpignan come altrove, si vede nelle urne non per strada. E allo stesso modo è difficile da cogliere a prima vista in giro per la città, diciamo così nel «paesaggio».
Questo, anche perché al contrario di quanto accade in altre regioni del paese, da queste parti non ci sono dei grandi siti industriali chiusi e abbandonati, visto che la zona non è in realtà mai stata particolarmente industrializzata. Perciò anche se può apparire sorprendente se osservato da fuori, credo di poter dire che in generale a Perpignan si vive bene, anche se, visto i risultati del Front National, non tutti la devono pensare in questo modo.

Queste elezioni sembrano essersi giocate anche sulla contrapposizione crescente tra le grandi metropoli da un lato e la provincia e i piccoli centri dall’altro. Da Perpignan come si guarda a tutto ciò?
La maggior parte degli analisti hanno effettivamente constato come si stia allargando la frattura tra gli elettori che vivono nei maggiori centri del paese, più fiduciosi nell’avvenire e più aperti verso l’Europa e il mondo, e quelli che risiedono invece nei paesini o nelle zone rurali che si mostrano invece più timorosi e incerti sul futuro. Si tratta di una divisione che è difficile comprendere fino in fondo se osservata dal pays catalan, visto che Perpignan è una città di taglia modesta, non supera i 100mila abitanti, e che conserva ancora un centro molto popolare. In ogni caso, non credo che la spiegazione a questo stato di cose che divide il paese sia poi così difficile da trovare. Le grandi città sono i luoghi che hanno probabilmente beneficiato di più dell’apertura verso l’esterno. Inoltre, il tasso di disoccupazione è meno forte che in altre parti del paese e i servizi pubblici reggono meglio che altrove, specie nelle regioni più povere. Il fatto che ad arrivare in testa al primo turno siano stati due candidati dai programmi praticamente opposti su questi temi, ha fatto si che le elezioni presidenziali abbiano messo in luce in modo particolare questa divisione che sta crescendo in seno alla nostra società.

Nel romanzo «In autunno cova la vendetta» (2013) lei toccava un altro tema riapparso in questa campagna elettorale: la memoria dei crimini che i francesi compirono durante la guerra d’Algeria e che continua a dividere il paese. Quanto è legato tutto ciò al razzismo che si manifesta oggi nei confronti degli immigrati maghrebini e della comunità islamica?
La Francia non ha naturalmente il monopolio della xenofobia o dell’islamofobia, ma il suo passato coloniale e soprattutto i suoi legami storici con l’Algeria conferiscono al dibattito su questi temi, e alle passioni che alimentano, un ruolo del tutto particolare nel paese. È chiaro come i francesi non abbiano fatto ancora i conti fino in fondo con il loro passato, con quello che potremmo chiamare il loro «passivo», rispetto all’Algeria.
Gli occhi dei pieds noirs sono ancora oggi pronti a riempirsi di lacrime quando evocano quello che considerano come il loro «paradiso perduto» di laggiù. Al contrario, le centinaia di migliaia di francesi che furono mandati a combattere ad Algeri parlano ancora troppo poco degli anni che vi trascorsero e di quanto accaduto in quel periodo. Alcuni mi hanno raccontato addirittura di non averne parlato per lunghissimi anni con nessuno e di aver trovato questo coraggio grazie alla lettura di quel mio libro. Qualcosa che mi ha reso molto orgoglioso.
Più in generale, credo si possa dire che questa parte della storia francese resta per molti versi ancora tutta da scrivere. Del resto, a conferma di ciò che dico, ha una forte valenza simbolica il fatto che non si sia trovata ancora una data condivisa da tutte le parti in causa per celebrare la fine di quel conflitto.

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