Questa mostra è dedicata al movimento di liberazione LGBT+ italiano e alla data della sua nascita: 5 aprile 1972, data fondamentale del genere umano». Inizia così, performando un pamphlet, il comunicato stampa che annuncia l’apertura, il 26 maggio scorso, della mostra 5 APRILE 1972 – Sanremo: 50 anni di movimento LGBT+ in Italia e in Liguria curata da Carlo Antonelli, Anna Daneri, Marco Fiorello, Francesco Urbano Ragazzi e visitabile fino al 10 luglio – al primo piano di Palazzo Grillo a Genova. A fine febbraio del ’72, a Sanremo, il festival della canzone italiana presentato da Mike Bongiorno insieme a Sylva Koshina e al genovese Paolo Villaggio, vedeva la vittoria di Nicola Di Bari con I giorni dell’arcobaleno: «E mentre impazzivi al profumo dei fiori / La notte si accese di mille colori / Distesa sull’erba come una che sogna / Giacesti bambina, ti alzasti già donna».

La prima copertina della rivista «FUORI!», 1971

NON PROPRIAMENTE la canzone rainbow che avremmo potuto immaginare. I giorni dell’arcobaleno si classificherà sesta all’Eurovision, la stessa posizione raggiunta dai Brividi pseudo-queer di MahmoodBlanco. L’immaginario del cinema italiano tra fine ’71 (New York) e autunno ’72 (Venezia antifestival) viene attraversato da In nome del padre di Marco Bellocchio. Ambientato in un collegio cattolico nel 1958, che ha il 1968 come impietoso fuoricampo, In nome del padre ricaccia la fantasia al potere nel cul-de-sac di un Italia prigioniera di Pio XII, di «superomismi eterocis», dove l’industrializzazione e la lotta di classe sono trasparenti che si intravedono dalle finestre del collegio, mentre il «reale» è affollato di contadine che vedono la Madonna, da matricidi isterico-borghesi e suicidi nichilisti da provincia, e il sesso è solo repressione che si sfoga in fantasmagorie da Spagna Seicentesca. Il 5 aprile 1972 a Sanremo, ospitato dal Casino, si apre il 1° Convegno Internazionale di Sessuologia. Tra gli obiettivi del convegno la necessità di affrontare «il problema dell’omosessualità» come spiega meravigliosamente il professor Acquaviva, sociologo invitato nella trasmissione RAI AZ- Un fatto e un perché di Luigi Locatelli: «Non avevamo l’idea di quanti fossero (…) Lo sviluppo delle grandi metropoli (quelle che si vedono solo alla finestre del collegio di Bellocchio NdR) fa sì che l’omosessuale non si senta più isolato. Si incontrano in gruppi. Formano quasi delle sottoculture».
Ma quel giorno, una quindicina di giovani per lo più piemontesi e liguri, che da un anno gravitano attorno al collettivo F.U.O.R.I.! decidono di andare a Sanremo e di diventare finalmente un gruppo politico e pubblico. Due di loro, Angelo Pezzana e Carlo Sismondi si travestono da psichiatri per poter partecipare, ma è l’inviata francese del Front Homosexuel d’Action Revolutionnaire, Françoise D’Eaubonne che irrompe nella sala e blocca il convegno mentre Pezzana e Sismondi lanciano delle fialette puzzolenti il cui fetore svuota la sala che non si riempirà più.
Fuori dal Casino le altri militanti tra cui Riccardo Rosso, Marc Payen (FHAR), Franco Tridente, Mariasilvia Spolato e Mario Mieli in rappresentanza del Gay Liberation Front, urlano FUORI!!! FUORI!!! FUORI!!!! e intonano la canzone scritta dal loro compagno Peter Bloom, un olandese a Roma: «Noi usciamo fuori / e con orgogli

Mario Mieli a Sanremo 5 aprile 1972

o al mondo / noi diciam così: / Siamo omosessuali / e siam contenti / di saper amar così! / Via l’ipocrisìa! / E con allegria / noi usciamo fuori / e per l’amor / vogliam la libertà / Gli omosessuali / son tanti in tutto il mondo / non li sai contar / Siamo rivoluzionari, / del corpo nostro / disponiamo solo noi. / Via Fallocrazìa! / Via ogni oppressione / Grideremo insieme / abbasso questa falsa società». Ecco che, in effetti, il 5 aprile 1972 diventa una data simbolica nella storia dell’umanità. Una data che probabilmente non entrerà nei libri di storia e proprio per questo resterà viva e perturbante.

LA MOSTRA genovese mantiene il senso di provvisorietà e di precarietà della memoria di una giornata che ha decisamente cambiato la percezione pubblica dell’omosessualità e ha cambiato le nostre possibilità di vita. Due brevi testimonianze di Pezzana e Rosso, gli unici due ancora vivi dei/delle 15 militanti «sanremesi» che però sentiamo cantare la gioiosa canzone di Peter Bloom, ci raccontano quella giornata. Gioia che pervade i cartelloni di protesta issati quel giorno e riscritti, reen-acted su cartoni del supermercato per ritrovare matericità in mostra. Gioia e bellezza e rabbia e gioia nel potersi finalmente dare degli spazi di vita e di politica. Nel potersi raccontare e amare e scopare. In una sala passa la trasmissione AZ e i sociologi e gli psicologi tentano di spegnere quella gioia che ormai però è uscita. E non è un caso che dopo l’ultimo passaggio nel buio della sala la mostra si apra alle leggere litografie di Corrado Levi e quella magnifica mappa debordianamente psicogeografica del desiderio e dell’eiaculazione del desiderio: Frankenstein, poesia geografica (1982). Levi e Andrea Pini ridisegnano il golfo spezzino localizzando «il culo di Paolino», «l’erezione di Mauro», «lo sperma di Esposito», «la gola di Massimo». Alcuni tavoli raccolgono fanzine, manifesti, cineforum, suggerimenti bibliografici tra cui il mio personale coup-de-coeur: Il cesso degli angeli – Graffiti sessuali sui m uri di una metropoli. Una mostra Low Definition, analogica, ma non vintage.
Che usa la precarietà di una storia parziale da non dimenticare, ma da raccontare nella sua volatilità. Il mainstream LGBT+ sembra aver sussunto nella sua essenza e nei suoi immaginari le profetiche parole del professor Gabrio Lombardi che possiamo ascoltare in AZ: «C’è un problema di valori. C’è una progressiva svalutazione dell’amore. L’amore è donazione e generosità tra due persone, ma deve aprirsi alla procreazione sennò è solo una postura egoista».
Come ci ha insegnato la parabola del festival cinematografico torinese partito Da Sodoma a Hollywood e arrivato a Lovers, messa in scena delle famiglie mononucleari LGBT possibilmente con prole. Torino, dove il primo nucleo del F.U.O.R.I. nacque nel 1972 e dove per la prima volta in Italia due omosessuali, migranti dal sud, un tassista e un macellaio, si comprano una cinepresa e negli anni 80 mettono in scena le loro storie prendendo in mano la rappresentazione delle loro identità. Torino, dove Angelo Pezzana si fa promotore del Museo dell’Omosessualità, moloch monoidentitario e monopensiero.

NON A CASO a Torino un’altra esperienza – Queer not Queerness – organizzata da arqueerio e da Unione Culturale Franco Antonicelli iniziata con una tre giorni il 14/15/16 aprile fa saltare, di nuovo, gioiosamente le concrezioni di potere patriarcale in cui l’esperienza del F.U.O.R.I. si è ingabbiata. E di nuovo Queer not Queerness, insieme a Living Room, il 7 giugno aprirà una TAZ , intesa come un processo aperto e iperconnesso che si mostra nel suo farsi e si s/mostra nel suo disfarsi attraverso la performance di Siksa – Punk letterario (nello slang polacco sta per «giovane donna ingenua e sessualmente attraente»). «5 aprile 1972» e «Queer not Queerness» assumono fino in fondo l’ontologia del queer che è la continua messa in discussione dell’ontologia stessa: solo la volatilità della storia che si può narrare Zone Temporaneamente (‘appunto) Autonome riesce a rendere una data fondamentale per l’umanità tutta anche se non verrà ricordata.
Cercando di non perdersi tra i vicoletti di Genova si arriva all’entrata di Palazzo Grillo e uno striscione appeso in modo assai precario ci accoglie: «Cosa ti meriti? Tutto!». 40 anni fa moriva Rainer Werner Fassbinder che ci ha insegnato a non dimenticare che il desiderio è anche questione di (lotta di) classe. Ma questa è ancora un’altra storia. Forse no come ci insegnano le scritte sui muri di Querelle.