Cultura

La memoria fuori dal campo di battaglia

Alevtina Kakhidze durante la performance «From Malta to Yalta»Alevtina Kakhidze durante la performance «From Malta to Yalta» – Foto Veronica Santi

Intervista L’artista ucraina Alevtina Kakhidze, e le due curatrici Kateryna Semenyuk e Oksana Dovgopolova, spiegano il progetto del padiglione del loro paese, ospitato nella prima edizione della Biennale di Malta (visitabile fino al 31 maggio)

Pubblicato 4 mesi faEdizione del 19 maggio 2024

Sua nonna non ha mai voluto incontrarla perché parlava russo e non ucraino, «non ho bisogno di bambini russi», diceva. Attorno a questo, e altri dolorosi spunti autobiografici, si sviluppa il progetto From South to North dell’artista Alevtina Kakhidze al padiglione nazionale dell’Ucraina della prima edizione di maltabiennale.art (visitabile fino al 31 maggio). Una riflessione sul passato imperialista russo a partire da ricordi intimi e familiari. Kakhidze ha immaginato una nuova geografia in cui l’Ucraina diventa parte del Mediterraneo, per indagare la storia del suo paese in parallelo al colonialismo di Malta.

La kermesse vede quindici padiglioni disseminati fra palazzi, fortezze, chiese, musei: uno centrale è dedicato alla mostra Insulaphilia, a cura di Sofia Baldi Pighi, cinque sono tematici e nove nazionali. Quello ucraino, a Villa Portelli, nasce dalla collaborazione tra la piattaforma Past / Future / Art e il Museo nazionale di belle arti di Odessa, insieme a Nos Visual Arts Production e l’Istituto ucraino.
L’artista presenta la nuova opera video All Good?, girata a Odessa all’inizio del 2024 con Roman Khimei e un’installazione con disegni, mappe, oggetti. Alevtina Kakhidze, classe 1973, ha partecipato a varie edizioni di Manifesta e collaborato con il Centre Pompidou di Parigi e la Whitechapel Gallery di Londra. Le curatrici Kateryna Semenyuk e Oksana Dovgopolova, nel team del padiglione ucraino pure alla scorsa Biennale di architettura di Venezia, sono co-fondatrici della piattaforma culturale per la memoria Past / Future / Art che si occupa di progetti commemorativi sulla storia ucraina e per la rielaborazione del passato.
Abbiamo rivolto alcune domande all’artista e alle curatrici.

Come nasce il progetto «From South to North»?
Nell’installazione racconto la storia di mia madre e mio padre. Nel film immagino che lui sia con me, gli mostro i cambiamenti di Odessa, dove studiava, quando faceva ancora parte dell’Unione Sovietica. Anche lui è nato in un paese indipendente, la Georgia, che ha avuto un’esperienza molto dura con la Russia. È il mio privato nella prospettiva del processo di colonizzazione.

Installation view, padiglione ucraino (foto Veronica Santi)

Qual è il legame che lei ha rilevato fra Malta e Odessa?
Mi sono concentrata su quando Malta è diventata indipendente e su quanto sta succedendo in Ucraina e Georgia ora. La via più ovvia per raggiungere Malta e Odessa è il mare, ma non in tempo di guerra. Il lavoro riguarda l’Unione Sovietica. Mia madre voleva vivere vicino al mare, ma ai tempi dell’Urss non era semplice spostarsi. Ha fatto l’operaia in una fabbrica pericolosa pur di vivere vicino al mare, in città ha incontrato mio padre. Al momento di partorire, per farmi nascere in condizioni migliori, è dovuta andar via. È un racconto intimo su una vita spezzata, fino alla sua morte a un posto di blocco attraversando il nuovo confine, un territorio occupato dai russi, mentre era in viaggio per visitare la sorella. Nella performance (From Malta to Yalta, ndr), invece, abbiamo cercato i collegamenti tra Malta e l’Ucraina. Yalta è una regione ucraina occupata nel 2014. Ragionando sul vertice del 1989, abbiamo «giocato» con i nomi Yalta e Malta, creando un ribaltamento.

Cosa significa essere artista e lavorare durante la guerra?
In realtà in Ucraina è difficile essere soldati, far parte dell’esercito, non essere un’artista. A volte mi vergogno di avere questo privilegio. Non c’è nessun approccio eroico. Prima della guerra del 2014, il mio interesse verteva sulla cultura del consumo, poi ho cominciato a raccontare le vetrine piene di oggetti come un segno di vita pacifica. So che potrebbe sembrare un incoraggiamento al capitalismo e per questo criticabile…

Che significato ha assunto il padiglione per le curatrici?
Kateryna Semenyuk: Volevamo tradurre all’estero la voce ucraina, proporre la nostra narrazione, promuovere l’arte e realizzare una forma di «diplomazia culturale». Così, abbiamo fondato una piattaforma sulla memoria. Il tema della Biennale è la decolonizzazione, tema su cui lavoriamo da tempo. Malta è stata colonia della Gran Bretagna, ma nella classica teoria coloniale si immaginano territori lontani, in Africa o Asia, abitati da popolazioni «diverse» da quelle dell’impero. È una colonia, ma potrebbe non sembrare. Per l’Ucraina vale lo stesso, molti nel mondo la intendono parte della Russia, e la Russia ha compiuto grandi sforzi per veicolare il messaggio che non è un paese separato. Per questo la guerra della Russia contro l’Ucraina è considerata una questione eterna, una guerra civile, ma non lo è. Se riveliamo la natura di un conflitto imperialista, gli altri paesi vedranno il quadro reale e non più una questione interna russa necessaria per gestire i rapporti con una parte del proprio popolo che ha «strane idee in testa». Proponiamo di guardare l’Ucraina nella prospettiva del Mediterraneo, il suo territorio non fa parte dell’impero russo dai tempi della colonizzazione greca, possiamo immaginarlo parte del Mediterraneo. Da questa prospettiva si intuisce un destino diverso. È un nuovo sguardo per interpretare la storia da sud a nord, in cui Odessa si trasforma in una capitale del Mediterraneo.

Come continuate a lavorare sulla memoria collettiva?
Oksana Dovgopolova: Abbiamo iniziato ad occuparcene nel momento in cui abbiamo capito che il ricordo del passato può essere usato come arma. Quando Putin ha utilizzato questo espediente, è stato creduto e in molti hanno pensato di dover riportare l’Ucraina a casa. È necessario sciogliere alcuni nodi complessi per rendere evidente che certi modelli propagandistici sono falsi e criminali. Per questo è importante lavorare sulla memoria. La nostra intenzione per il progetto è spiegare come guardare al passato per capire che alcuni modelli artistici sono sbagliati e dobbiamo liberarcene. L’obiettivo è condurre la memoria fuori dal campo di battaglia: non è un’arma. L’arte può aiutarci, i suoi strumenti permettono di vedere le cose sotto un’altra lente, allargando la comprensione della situazione contemporanea, liberi dalla propaganda. L’arte possiede un grande potere nel creare nuove immagini.

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